Quella soluzione bella e impossibile
La soluzione a due stati non è stata cancellata mercoledì da Netanyahu e nemmeno da Trump: è stata cancellata negli ultimi venticinque anni dal rifiuto palestinese
Di Marco Paganoni

Il presidente Usa Donald Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu mercoledì scorso a Washington
A conclusione di un articolo appassionante anche se un po’ disordinato che abbiamo proposto su israele.net, Ira Sharkansky, professore di scienze politiche all’Università di Gerusalemme, scrive: “Ogni commento è ben accetto, ma si resista alla tentazione di offrire la ricetta per la soluzione: tanti vi hanno provato e ne sono usciti furiosi e frustrati”. Condividiamo. Se c’è una cosa irritante per chiunque si occupi con onestà d’intenti e con qualche competenza dell’annosa questione israelo-arabo-palestinese è l’arrogante sicumera di chi è convinto d’avere la soluzione in tasca. Non fanno eccezione i tantissimi che da anni, anzi da decenni, vanno ripetendo come un mantra che l’unica soluzione di pace è la soluzione a due stati. Per loro, chiunque esprima qualche perplessità è per definizione “contro la pace”. In questi anni abbiamo proposto su israele.net decine di articoli scritti da autori israeliani di varia estrazione e ispirazione che spiegano in modo pacato e argomentato, e con spirito pragmatico, i rischi, le controindicazioni, gli ostacoli che rendono assai problematica la soluzione a due stati. Basterebbe ricordare, fra gli altri, i contributi di Ben-Dror Yemini (“Obama deve spiegare cosa gli fa credere che proprio oggi uno stato palestinese sarebbe fattibile; la destra israeliana deve capire che certe scelte portano alla fine dello stato ebraico”) e di Martin Sherman (“Chi sostiene la formula a due stati ha ottime ragioni, ma non bastano se non è in grado di rispondere in modo convincente a queste nostre obiezioni”). La pagina su Facebook di israele.net annovera alcuni “affezionati” lettori che da anni reagiscono ad ognuno di questi articoli commentando come un disco rotto: “la pace ci sarà solo quando ci sarà lo stato palestinese”. Mai una volta che costoro, come tanti altri, si prendano la briga di rispondere nel merito agli argomenti di chi afferma che uno stato arabo-palestinese a fianco di Israele sarebbe una gran bella soluzione in teoria: peccato che in pratica non sia fattibile e forse addirittura controproducente. Chi poi non vuole capire, né spiegare, i veri nodi della questione, ricorre al facile trucco di citare qualche colono israeliano estremista secondo il quale Giudea e Samaria spettano agli ebrei per diritto divino: l’unico argomento che non compare mai nelle analisi che abbiamo ricordato, e che certamente non è alla base delle preoccupazioni della maggioranza degli israeliani.
Nutrire perplessità non significa non vedere gli obiettivi che si propone la soluzione a due stati e gli scenari negativi che essa intende scongiurare. Ricordiamoli. Innanzitutto, sarebbe semplicemente giusto che gli arabi palestinesi potessero esercitare il loro diritto all’auto-governo, ed è imperativo trovare le modalità con cui tale diritto possa esercitarsi senza inficiare l’eguale diritto di altri né mettere a repentaglio la sicurezza e la stabilità di tutti. Inoltre, è per il bene della stessa società israeliana che deve terminare il suo controllo militare su un’altra popolazione, per quanto tale controllo militare sia necessario nelle attuali condizioni della regione, e per quanto sia stato fin qui esercitato – checché ne dica la propaganda avversa – in modo incommensurabilmente più tollerabile di altri domini militari passati e presenti, in Medio Oriente e altrove. Infine, ed è un argomento di logica stringente, Israele non può annettere territori densamente abitati da arabi palestinesi senza cessare di essere quello che oggi è: l’unico stato al mondo in cui la maggioranza ebraica può autodeterminare democraticamente il proprio destino. Queste considerazioni spiegano bene perché la soluzione a due stati sarebbe altamente auspicabile. Purtroppo, tuttavia, non garantiscono affatto che essa sia anche concretamente realizzabile, specie nelle condizioni attuali. La soluzione a due stati presenta infatti alcune formidabili difficoltà che i suoi tetragoni sostenitori non si curano quasi mai di confutare, ma che sono ben presenti al pubblico israeliano. Ne ricordiamo almeno due.

Tel Aviv vista dalla Cisgiordania. Come ha scritto Martin Sherman, “qualsiasi esercito schierato in quelle aree, regolare o irregolare, potrebbe sconvolgere a piacimento la vita socio-economica nelle megalopoli costiere d’Israele” (clicca per ingrandire)
Innanzitutto, uno stato indipendente arabo-palestinese in Cisgiordania si tradurrebbe quasi inevitabilmente in un incubo per la sicurezza di Israele. Alla luce di quanto accaduto nel sud del Libano e nella striscia di Gaza e di quanto sta accadendo nel Sinai (per non dire ai confini del Golan), conoscendo i propositi di Hamas, dell’Iran e di ogni altra fazione jihadista mediorientale, visto l’apocalittico collasso di interi stati arabi fittizi con relativo interminabile bagno di sangue, non ci vuole molta fantasia per immaginare forze irresponsabili e ferocemente ostili a Israele che assumono rapidamente il controllo di un territorio, la Cisgiordania, che si estende letteralmente a un tiro di schioppo da tutti i centri nevralgici della società, dell’economia, della politica, dei trasporti d’Israele: uno scenario che non dovrebbe allarmare solo gli “amici di Israele”, giacché suona come una ricetta sicura per nuove instabilità, tensioni, scontri, guerre e spargimenti di sangue. Chi se la sente di scommettere alla cieca?
In secondo luogo, la soluzione a due stati ha un enorme difetto: i palestinesi l’hanno ripetutamente rifiutata. Un rifiuto che è e rimane un macigno, che nessun sofisma e nessuna campagna propagandistica possono far scomparire. Ci ha provato il Segretario di stato John Kerry nel suo celebre discorso di fine dicembre, subito smascherato da Alan Dershowitz che ha osservato: “Kerry non ha nemmeno menzionato le ripetute offerte israeliane di porre fine a occupazione e insediamenti creando uno stato palestinese in Cisgiordania e Gaza: il rifiuto da parte di Yasser Arafat delle proposte di Bill Clinton ed Ehud Barak nel 2000-2001, e la mancata risposta da parte di Abu Mazen all’offerta di Ehud Olmert del 2008. Non menzionare nemmeno questi passaggi cruciali è la prova che il discorso era fazioso”. Gli ha fatto eco Jeffrey Elikan: “Nessuna analisi equa e ragionevole degli ostacoli al processo di pace, e delle responsabilità per lo stallo in cui versa, può onestamente ignorare quelle offerte, che comprendevano la quasi totalità dei territori rivendicati dai palestinesi nella striscia di Gaza e in Cisgiordania più nuove porzioni di territorio a compensare quelle rimaste a Israele. Sorprendentemente in ognuna di quelle occasioni i palestinesi rifiutarono l’offerta o semplicemente la lasciarono cadere senza nemmeno proporre una contro-offerta. Kerry non ha nemmeno tentato di spiegarci il perché di quei rifiuti”. Ancora Dershowitz: “Il principale ostacolo alla soluzione a due stati resta la non volontà palestinese di accettare la spartizione che prevede due stati per due popoli: il popolo ebraico e il popolo arabo. Il che comporterebbe l’esplicito riconoscimento da parte dei palestinesi del concetto di Israele come stato nazionale del popolo ebraico”.

Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) con la mappa delle rivendicazioni palestinesi: Israele è cancellato dalla carta geografica
E’ così. Abbiamo sentito innumerevoli volte i dirigenti palestinesi parlare di soluzione “a due stati”. Non li abbiamo mai sentiti una sola volta parlare di “due stati per due popoli”. Infatti non è questo che intendono. Come dimostra con ossessionante coerenza tutta la pubblicistica palestinese, ciò che intendono è creare uno stato arabo-palestinese da cui vengano espulsi tutti gli ebrei, a fianco di uno stato in cui possano insediarsi centinaia di migliaia arabi (i cosiddetti profughi palestinesi) che andranno ad aggiungersi agli arabi israeliani fino a cancellare – prima di fatto, poi di diritto – il carattere ebraico dello stato. Sicché, per scongiurare il pericolo di diventare uno stato ebraico non democratico oppure uno stato democratico non ebraico, Israele finirebbe col diventare uno stato né ebraico né democratico.
Se le cose stanno così, la soluzione a due stati non è stata cancellata mercoledì scorso da Benjamin Netanyahu e nemmeno da Donald Trump. E’ stata cancellata negli ultimi venticinque anni dal rifiuto palestinese. Anzi, forse non è mai esistita. “Il concetto dei due stati – ha scritto Giora Eiland – si basa sul postulato che l’aspirazione nazionale dei palestinesi sia avere uno stato indipendente. Ma non è vero. L’ethos palestinese si fonda su una serie di principi come la giustizia da ripristinare, l’onta da vendicare, la rivalsa e, soprattutto, il ‘diritto al ritorno’. È vero che i palestinesi vogliono sbarazzarsi dell’occupazione, ma è sbagliato supporre che ciò si traduca nel desiderio di avere uno stato indipendente. Preferirebbero piuttosto una soluzione nessuno stato, vale a dire che lo stato di Israele cessasse di esistere e che l’area tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano venisse spartita fra Giordania, Siria ed Egitto”.
Tuttavia – come si è detto – anche la soluzione a un unico stato non è proponibile, e dunque la domanda da porsi è: esistono terze vie percorribili? Molti, in Israele, ci stanno lavorando, con esiti più o meno convincenti. Come israele.net abbiamo cercato di darne conto, pur consapevoli che si tratta di tentativi ed esplorazioni ancora pieni di incognite e lacune. Di una cosa, in ogni caso, siamo persuasi: che – come dice la celebre frase attribuita ad Albert Einstein – è del tutto insensato fare e rifare sempre la stessa cosa sperando che cambi il risultato.
(israele.net, 16.2.17)

In giallo/ocra, lo stato palestinese che esisterebbe già oggi se nel 2008 i palestinesi avessero accettato la proposta di Ehud Olmert (clicca per ingrandire)