Quell’indefinibile stato di felicità

Come si spiega che in ogni sondaggio gli israeliani risultano un gruppo umano soddisfatto e ottimista?

Di Ziona Greenwald

Un campo di ranuncoli del kibbutz Nir Yitzhak, vicino alla striscia di Gaza

Benvenuti in Israele, il paese degli investimenti stradali terroristici, degli accoltellamenti, dei razzi e dei lanci di pietre sulle auto di passaggio; dell’alta disparità di reddito e degli alti tassi di povertà; dei politici corrotti, della siccità, degli incendi; delle tensioni fra arabi ed ebrei, fra laici e religiosi, fra religiosi di diverse fedi, fra ashkenaziti e sefarditi. Eppure, contro ogni aspettativa, le inchieste sugli israeliani rilevano costantemente che siamo, nel complesso, un gruppo umano felice.

A cosa si può attribuire questo senso di appagamento, a quanto pare autoctono? Evidentemente non è correlato con le dimensioni dei nostri appartamenti o dei nostri conti bancari. Né riflette, stando a queste stesse ricerche, un grado comparabile di soddisfazione per le performance dello stato.

L’Israel Democracy Index 2016, da poco pubblicato, mette in evidenza quello che si potrebbe chiamare il “paradosso della felicità”. Tre quarti degli israeliani intervistati (il 78% degli ebrei e oltre il 60% degli arabi) definiscono la propria situazione personale come “buona” o “molto buona”. Invece, quando gli viene chiesto di classificare la situazione del paese, solo il 36,5% degli intervistati è disposto a usare  termini altrettanto positivi. Il segmento più grande, 40%, valuta lo stato della nazione “così così”, mentre il 23% lo definisce “cattivo” o “molto cattivo”. L’indagine ha anche rilevato livelli di fiducia tristemente bassi nelle istituzioni politiche, ad eccezione delle Forze di Difesa.

Eppure, nonostante i loro dubbi sul sistema politico, la grande maggioranza degli israeliani (circa il 70% degli ebrei e più della metà degli arabi) si dice ottimista circa il futuro del paese. E per la maggior parte (86% degli ebrei, 55% degli arabi) gli intervistati si dichiarano orgogliosi di essere israeliani. Sono numeri che sarebbero notevoli anche per un paese non assediato e afflitto da conflitti.

Un’opera dell’artista israeliano David Gerstein

Non si creda che si tratti del risultato solo di ricerche locali. Non mancano dati comparativi di ricerche internazionali a conferma della conclusione che Israele – con tutti i suoi problemi e le sue incertezze, dagli scioperi dei servizi pubblici al caro-benzina – è un posto alquanto felice. Ad esempio, l’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) pubblica ogni anno un Better Life Index che classifica i paesi in base ai livelli di soddisfazione personale dei cittadini. Anche quest’anno Israele si è piazzato fra i primi cinque della lista, superato solo da Danimarca, Svizzera, Islanda e Finlandia. Gli Stati Uniti, tanto per dire, non sono nemmeno fra i primi dieci. L’Ocse classifica i paesi anche in base a 22 variabili che vanno dal reddito all’istruzione, alla sanità, agli alloggi. Israele presenta risultati misti: più forte della media in alcuni campi come salute e longevità, disoccupazione e tassi di scolarizzazione; più debole della media in altri campi come il reddito pro capite, i punteggi dei test standardizzati e l’equità salariale.

Anche l’Onu svolge analoghe ricerca sulla felicità dei cittadini degli stati membri. Se possiamo dare credito alle asserzioni di questa travagliata istituzione, il suo Rapporto 2016 sulla Felicità Mondiale  colloca Israele in un’impressionante undicesima posizione (dev’essere l’unico rapporto che esce dal Palazzo di vetro in cui Israele non viene bistrattato…). Come nell’indagine Ocse, anche in questa lista i paesi scandinavi e la Svizzera occupano le prime posizioni, seguiti da Canada, Paesi Bassi, Nuova Zelanda e Australia. E’ anche interessante notare che in Israele la misura della “diseguaglianza di felicità” – il range di livelli di benessere riferito dagli intervistati – è diminuito dall’ultima volta che è stata misurata nel 2012. In altre parole, oggi nella popolazione israeliana si registra una più equa distribuzione della felicità.

Dunque, cosa c’è dietro a questo straordinario paradosso, che trova conferma sondaggio dopo sondaggio? Israele non può permettersi i generosi programmi di assistenza sociale di una Danimarca, né la quiete uniforme della Nuova Zelanda. Il valore che abbiamo, in abbondanza, è il significato. Questo paese non è solo un posto dove vivere. E’, per molti di noi, il posto in cui vivere. Gli israeliani sono legati gli uni agli altri, e al paese, secondo modalità che poche nazioni possono capire. Condividiamo una storia così antica, eppure così viva nel presente. Abbiamo dimestichezza con lo straordinario. E abbiamo fiducia: chi potrebbe restare sano di mente, qui, senza fiducia? Questi fattori non misurabili sono, a mio parere, ciò che porta Israele in cima ai diagrammi della felicità; ciò che sperabilmente continuerà a sostenerci, con il morale alto, attraverso tutte le sfide ci attendono.

(Da: Jerusalem Post, 10.1.17)