Requiem a Tel Aviv – e a Theresienstadt

L’esecuzione del capolavoro di Verdi a Tel Aviv, ad opera della Scala di Milano, offre l’occasione per ricordare una precedente, assai diversa produzione

di Ervin Birnbaum

image_2553Il dono che Milano offre a Tel Aviv per il suo centesimo compleanno, un’esecuzione gratuita del Requiem di Verdi, è un regalo immenso, e non solo perché un capolavoro monumentale prodotto da quello che è forse il massimo teatro lirico di tutti i tempi, La Scala di Milano, sarà eseguito sotto la direzione di uno dei più grandi direttori del nostro tempo, Daniel Barenboim. Cosa di per sé già notevolissima.
Ma c’è dell’altro, in questa produzione: un’angolazione profondamente ebraica, e non è sicuro che i creatori di questa insolita serata a Tel Aviv ne siano consapevoli, per cui il dono assume un significato speciale.
Il Requiem di Verdi è stato la più grande produzione musicale dell’epoca della Shoà. Divenne una forma di resistenza – non meno grande di qualunque altra intrapresa di fronte alla bestia nazista – nel campo di concentramento di Terezin.
Sperando di ingannare il mondo con la creazione di un “ghetto modello”, i nazisti deportarono la crema dell’intellighenzia ebraica a Terezin (Theresienstadt), a 56 km da Praga. Il ghetto, per quelli che non morivano nel campo di fame, dissenteria e torture, divenne una strada a senso unico verso le fabbriche di morte di Auschwitz e Birkenau. Nel corso di circa tre anni e mezzo, 150.000 ebrei passarono da questo ghetto. Di questi, 98.700 morirono più tardi nelle camere a gas; 35.500 morirono di fame e malattie; 520 caddero sotto le torture della Gestapo. In tutto, solo 14.000 su 150.000 detenuti nel campo sopravvissero alla guerra.
Pur sopravvivendo sotto la costante minaccia di deportazione “ad est” (ad Auschwitz), circondati dal lezzo della morte, calpestati, umiliati e torturati, il direttore d’orchestra Raphael Schachter ed un gruppo di detenuti intrapresero una presentazione del Requiem di Verdi: un’impresa enorme anche nelle migliori condizioni. Barenboim porta a Tel Aviv 180 musicisti esperti della Scala. A Terezin il gruppo che si riuniva di notte nella cantina di una delle baracche dopo l’estenuante lavoro contava circa 150 persone.
Il loro numero era sempre incerto, perché alcuni senza preavviso venivano presi e trasportati “ad est”. Schachter aveva in mano una sola partitura e un piano senza gambe. Il gruppo dovette imparare a memoria il testo latino della rappresentazione di 90 minuti. Infine, come per miracolo, finirono col trovare una gran quantità di strumenti musicali.
Ma le difficoltà tecniche erano solo una parte degli ostacoli. Sorsero dei dubbi nel campo sul fatto che questa fosse la composizione giusta da eseguire in quelle circostanze: degli ebrei, esposti a trattamenti inumani, destinati alla sofferenza, con la fine mai molto lontana, che cantavano un inno cattolico per i morti, in latino, scritto da un italiano! Sembrava esserci un’amara ironia in tutto questo, qualcosa di quasi blasfemo. Alla fine, però, la maggior parte degli obiettori comprese che quest’ode cattolica ai morti, cantata dalle voci dei detenuti di Terezin, sarebbe diventata un peana di trionfo della resistenza ebraica.
Quando ebbe inizio l’esecuzione, con la proclamazione “Dies Irae” (Il giorno dell’ira) fu percepita come un riferimento all’ira che si sarebbe scatenata sui malvagi che allora esercitavano potere di vita e dei morte, piuttosto che all’ira subita da quelli che venivano messi a morte. E al termine dell’esecuzione, il potente “Libera Me” (Liberami, Signore, dalla morte eterna, quando verrai a giudicare il mondo con il fuoco) si trasformò in una splendida dichiarazione della fede ebraica secondo la quale, qualunque cosa facciano i nostri nemici, si resiste nel fulgore del nostro Dio.
Il Requiem di Verdi a Terezin divenne, nelle parole di Murry Sidlin (decano della Scuola di Musica dell’Università Cattolica), “il trionfo dei prigionieri … il meglio dell’umanità che espugna il peggio dell’umanità”. Victor Ullman rivela la sua convinzione personale quando afferma che “i condannati cantavano il Requiem per quelli che li avevano condannati, e per il loro dannato Terzo Reich” (“Glosse tardive al Requiem di Verdi”).
I detenuti eseguirono il Requiem 16 volte, di cui alcune per il personale della Gestapo e per gli ufficiali della Wehrmacht. Alcuni dei tedeschi erano conoscitori di musica e trovarono divertente che gli ebrei cantassero un’ode alla morte quando si trovavano letteralmente sulla soglia dell’eternità. È stato riferito che Adolph Eichmann si sbellicava dalle risate quando presenziò allo spettacolo, strepitando: “Gli ebrei suonano le loro campane a morto con uno spettacolo cristiano!”.
È stato anche riferito che il verso conclusivo, il “Libera Me” che dovrebbe essere cantato due volte in “pianissimo”, fu cantato la prima volta in “fortissimo” e, dopo un fischio ben percettibile che presumibilmente indicava un treno verso la deportazione, continuò nell’atteso “pianissimo”.
È stato anche osservato che ad un certo punto Schachter modificò leggermente la partitura, trasformando una frase musicale in tre staccati e una nota più lunga (forse paragonabile all’apertura della Quinta di Beethoven, ta-ta-ta-taaa), che in codice Morse sta per la lettera “V” di “vittoria”. Si racconta che cantanti e musicisti fissavano negli occhi i tedeschi con uno sguardo di sfida, e senza ombra di paura.
Il Requiem di Verdi eseguito a Terezin divenne così una dichiarazione trionfante dell’immortalità ebraica nonostante i fuochi dell’inferno.
È giusto e appropriato che la prima città totalmente ebraica dei tempi moderni – simbolo di Israele resuscitato nella sua patria – continui nello stesso spirito. Circondati da nemici, la città di Tel Aviv e lo stato di Israele non cederanno.

(Da: Jerusalem Post, 14.07.09)

Nella foto in alto: Orchestrali internati a Terezin (dall’incompiuto film di propaganda nazista del 1944 “Der Führer schenkt den Juden eine Stadt”)