Riallineamento regionale

Non avrebbe potuto essere più stridente il contrasto fra l’immagine dei dirigenti sunniti ed europei che si riunivano a Varsavia con Israele e Usa, e quella di iraniani turchi e russi che si riunivano a Sochi (nella totale assenza di Abu Mazen)

Editoriale del Jerusalem Post

L’incontro fra il ministro degli esteri dell’Oman, Yousuf bin Alawi bin Abdullah, e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il 13 febbraio, a margine del summit di Varsavia sul Medio Oriente

Una convinzione comune negli ultimi 26 anni, dalla firma degli accordi di Oslo, era che la normalizzazione con il mondo arabo sarebbe stata possibile solo quando lo stato d’Israele avesse concluso un accordo di pace con i palestinesi. Quello che è successo giovedì scorso a Varsavia non si può ancora definire “normalizzazione”, ma è quanto finora vi è andato più vicino.

Il summit sul Medio Oriente ospitato dagli americani in Polonia mirava in primo luogo a contrastare gli sforzi dell’Iran di espandere la sua egemonia e minare i regimi “moderati” in tutto il Medio Oriente. Il contrasto fra l’immagine dei dirigenti sunniti e dei paesi europei che si riunivano a Varsavia, e quella dei capi iraniani turchi e russi che si riunivano contemporaneamente a Sochi non avrebbe potuto essere più stridente. E’ in corso un’autentica battaglia, oggi in Medio Oriente, tra le forze dell’oscurantismo guidate dall’Iran e dai suoi galoppini come Hezbollah, e il mondo occidentale guidato da Israele e Stati Uniti.

La partecipazione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu al summit è stata a dir poco storica. Era già accaduto in precedenza che leader israeliani e arabi partecipassero a forum internazionali di questo genere, ma quando il leader israeliano entrava nella stanza o saliva sul podio per prendere la parola, tradizionalmente accadeva che quasi tutti i rappresentanti arabi si alzavano e se ne andavano. Questa volta no. Giovedì scorso Netanyahu si è seduto accanto al ministro degli esteri dello Yemen, Abdulmalik al-Mekhlafi. Quando è stato il turno di Netanyahu di prendere la parola e il suo microfono non ha funzionato, Mekhlafi gli ha passato il suo. Non sarà la pace, ma considerando che lo Yemen è uno dei tanti paesi arabi e islamici che non hanno mai voluto avviare rapporti diplomatici formali con Israele, è stato comunque un momento indimenticabile. Come ha twittato l’inviato degli Stati Uniti Jason Greenblatt, “un passo dopo l’altro”.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu lo scorso 14 febbraio alla Conferenza di Varsavia su pace e sicurezza in Medio Oriente. Alla sua sinistra, il ministro degli esteri dello Yemen Abdulmalik al-Mekhlafi

Netanyahu ha detto che l’incontro di Varsavia costituisce un passo avanti storico per quanto riguarda le relazioni arabo-israeliane, e che è stato infranto il tabù contro qualunque incontro fra leader israeliani e leader arabi. “Non ho detto che possiamo fare la pace senza risolvere il conflitto israelo-palestinese – ha spiegato Netanyahu – ma possiamo far progredire la normalizzazione”.

Anche i rappresentanti degli Stati Uniti hanno plaudito all’occasione. “E’ chiaro che l’aggressione dell’Iran nella regione ha avvicinato Israele e mondo arabo – ha twittato Greenblatt durante la conferenza – Dobbiamo portare avanti questo importante dialogo”. Anche il Segretario di stato Mike Pompeo ne ha riconosciuto l’importanza. Durante la sessione di apertura di giovedì mattina Pompeo ha sottolineato come la sera prima “leader israeliani e leader arabi [che non riconoscono Israele ndr] cenavano insieme nella stessa stanza”.

La ragione di questo cambiamento nello stato d’animo arabo verso Israele si basa su tre interessi e percezioni. Innanzitutto la consapevolezza del fatto che un accordo di pace tra Israele e palestinesi non è attualmente possibile. Che se ne attribuisca la colpa agli israeliani o all’intransigenza dei palestinesi, in ogni caso tutti capiscono che una svolta, su questo terreno, non è destinata ad arrivare tanto presto. Il rifiuto del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) di dialogare con gli americani dopo lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme dice tutto.

La seconda ragione del mutato atteggiamento nei confronti di Israele è il forte interesse del mondo arabo a contenere l’Iran e la sua espansione nella regione. Gli stati sunniti del Golfo, così come la Giordania e l’Egitto, si rendono conto che devono cooperare con Israele se vogliono effettivamente arginare gli iraniani. L’intelligence d’Israele, le sue armi sofisticate e la perdurante guerra segreta con gli iraniani in Siria mostrano agli arabi che Israele è, di fatto, il loro alleato più affidabile quando si tratta di questa battaglia.

Il terzo motivo di interesse è la consapevolezza che, se si vuole far progredire e modernizzare il mondo arabo, è molto meglio collaborare con Israele, la “nazione start-up” nota nel mondo per la sua tecnologia d’eccellenza: dall’irrigazione a goccia, alla gestione dei rifiuti, ai sistemi di difesa informatica. Ogni paese della regione vorrebbe poter beneficiare della straordinaria tecnologia che nasce nello stato ebraico.

Bisogna dare atto a Netanyahu che, a tutto vantaggio di Israele, ha trascorso gli ultimi anni a gestire con intelligenza un delicato equilibrio fra promuovere le relazioni tra Israele e mondo arabo-sunnita moderato e allo stesso tempo mostrare, a loro e al resto del mondo, di non essere un ostacolo al dialogo e alla pace con i palestinesi. Quello che è successo a Varsavia la scorsa settimana è la dimostrazione che questa strategia può funzionare.

(Da: Jerusalem Post, 17.2.19)