A cosa serve il piano Trump? Ribalta postulati sbagliati che si sono accumulati nel tempo

Così come è cambiata la regione, anche l'approccio al processo di pace deve cambiare

Editoriale del Jeruslemm Post

Nei quasi 53 anni trascorsi dalla guerra dei sei giorni del 1967, molti piani statunitensi sono stati messi sul tappeto per cercare di risolvere il conflitto israelo-palestinese. Ci sono stati il piano Rogers nel 1969, il piano Reagan nel 1982, i parametri di Clinton nel 2000. Anche altri presidenti, da Jimmy Carter a George W. Bush a Barack Obama, dedicarono molto tempo e molti sforzi al tentativo di risolvere il conflitto anche se i loro nomi non siano rimasti collegati a nessun piano specifico.

Nessuno di questi piani ha funzionato e la pace continua a eludere ogni tentativo. Ma quei piani e quei cicli di negoziati hanno fissato dei parametri destinati a restare per anni gli ineludibili punti di riferimento di ogni discussione sulla questione. Uno dei principi fondamentali del Piano Rogers era il ritiro di Israele da tutte le terre catturate agli egiziani nella guerra dei sei giorni. Il piano Reagan parlava di un’autorità di auto-governo palestinese e di un congelamento degli insediamenti. I parametri di Clinton prendevano in esame una suddivisione di Gerusalemme.

È tutt’altro che sicuro che il piano più recente, “l’accordo del secolo” del presidente Donald Trump, possa avere molto più successo dei precedenti nel realizzare una pace immediata tra Israele e palestinesi, se non altro perché i palestinesi non sono nemmeno disposti a dargli un’occhiata. Non può esserci pace tra due parti se una delle parti non è interessata né coinvolta. La tragedia è che i palestinesi, rifiutando di prendere in considerazione questo piano, potrebbero perdere per l’ennesima volta – come hanno già fatto nel 1936, nel 1947, nel 2000 e nel 2008 – l’occasione per imboccare una strada che potrebbe sfociare nel loro stato indipendente: forse non lo stato dei loro sogni, forse non la realizzazione di tutte le loro fantasie, ma perlomeno qualcosa da cogliere al volo e su cui lavorare.

A cosa serve, quindi, l’intero esercizio dell’”accordo del secolo”? I cinici dicono che l’unico scopo del piano è fornire vantaggi politici ed elettorali a Trump e al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Ma quei cinici probabilmente non hanno letto il piano, perché esso fa anche qualcos’altro: modifica radicalmente i termini del discorso pubblico su come dovrebbe essere un accordo futuro.

Anche se il piano probabilmente non porterà la pace, il fatto stesso che sia stato presentato ribalta alcuni postulati che si sono accumulati nel tempo. Obbliga tutti a considerare la questione in modo diverso, tenendo conto sia di quanto la regione è cambiata, sia dell’esperienza acquisita negli oltre 25 anni trascorsi dalla firma degli Accordi di Oslo.

Proteste palestinesi contro il piano Trump davanti a Mod’in Illit. Sulla mappa che cancella Israele: “Gerusalemme è l’eterna capitale della Palestina”. La premessa del piano della Casa Bianca: è ora di ammettere che Israele è parte integrante del Medio Oriente

Un postulato che il piano ribalta è che un accordo di pace debba per forza significare un ritorno israeliano praticamente completo sulle linee pre-1967. Il testo della proposta afferma invece chiaramente che Israele egli Stati Uniti non ritengono che “lo stato di Israele sia legalmente tenuto a consegnare ai palestinesi il 100% del territorio precedente il 1967 (una posizione conforme alla risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite)”. Un altro presupposto ribaltato è che in qualsiasi piano tutti gli insediamenti oltre i grandi blocchi debbano essere rimossi. Non è così, afferma il governo degli Stati Uniti: “La pace non dovrebbe richiedere lo sradicamento di nessuno, né arabi né ebrei, dalle case in cui vivono: una cosa che con ogni probabilità provocherebbe tumulti civili e che contrasta con il concetto di coesistenza”. Il piano ribalta anche vetusti postulati relativi ai profughi, come l’idea che un numero illimitato di profughi (e loro discendenti) sia titolare di un “diritto” a stabilirsi, non si dice in Israele, ma anche nel futuro stato palestinese. Il piano fissa inoltre alcuni importanti parametri di riferimento, spesso trascurati quando si parla di uno stato palestinese e che è invece indispensabile che vengano soddisfatti: Hamas deve essere disarmata, i pagamenti ai terroristi devono cessare, la corruzione deve essere combattuta e i diritti umani devono essere rispettati.

Tutti i negoziati da Oslo in poi hanno seguito lo stesso tracciato generale, guidati dagli stessi postulati. Questo piano mette radicalmente in discussione tali postulati e riconosce che, così come la regione è cambiata, anche l’approccio alla costruzione della pace israelo-palestinese deve cambiare. Il piano cerca di trovare un equilibrio tra aspirazioni palestinesi e sicurezza per Israele. Giustamente, sul fattore sicurezza riconosce che non possono esserci margine di errore. Per quanto riguarda le aspirazioni palestinesi, il concetto di fondo è semplice: qualcosa è molto meglio di niente. Sarebbe ora che i palestinesi lo capissero.

(Da: Jerusalem Post, 29.1.20)

Maurizio Molinari

Scrive Maurizio Molinari: Dagli accordi israelo-palestinesi di Oslo del 1993, ogni presidente degli Stati Uniti ha avuto un differente approccio al negoziato in Medio Oriente. Bill Clinton tentò di trasformarli in pace definitiva puntando sulla formula “pace in cambio di territori” ma si scontrò a Camp David nel 2000 con il rifiuto di Yasser Arafat di riconoscere al premier israeliano Ehud Barak, anche solo sul piano storico, il legame fra gli ebrei e il Monte del Tempio a Gerusalemme. George W. Bush, con la Conferenza di Annapolis del 2007, rinnovò l’approccio ma questa volta a rifiutare lo scambio offerto dall’israeliano Ehud Olmert – che avrebbe consegnato ai palestinesi Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est con condizioni migliori di quelle di Barak – fu Abu Mazen, successore di Arafat, contrario a porre la propria firma sulla completa fine del conflitto “contro il nemico sionista”. Barack Obama era invece convinto che per far accettare la pace definitiva ai palestinesi l’America dovesse prima indebolire la posizione negoziale di Israele – su Gerusalemme, confini e insediamenti – e così fece, con una raffica di decisioni diplomatiche, ma anche in questo caso l’esito fu negativo per l’ostilità di Abu Mazen a rifiutare nel 2013 la richiesta del Segretario di stato John Kerry di rinunciare al “diritto al ritorno” dentro i confini di Israele di 5,1 milioni di profughi palestinesi.

Sono tali precedenti a spiegare perché Trump ha optato per un approccio radicalmente diverso dai predecessori, ovvero ha deciso di porre Abu Mazen di fronte alla necessità di rinunciare ai tabù ideologici del nazionalismo arabo-palestinese, riconoscendo dei dati di fatto: il legame fra popolo ebraico e Gerusalemme esiste da 3.000 anni; i luoghi santi di Gerusalemme non sono mai stati così aperti e accessibili a tutti come dall’indomani del 1967 quando gli israeliani ne presero il controllo; i territori di Cisgiordania, Gaza e Golan furono presi da Israele al termine di un conflitto difensivo; la risoluzione 242 dell’Onu non obbliga Israele a tornare ai confini pre-1967; i confini fra Israele e nuovo stato arabo-palestinese non possono mettere in pericolo la sicurezza dello stato ebraico. 
Trump è convinto che se la pace ancora non è stata firmata è per la mancanza di realismo da parte dei leader palestinesi – Arafat prima ed Abu Mazen dopo – nel prendere atto della situazione sul terreno.

Un rifiuto che si origina nell’idea che “ogni terra appartenuta all’islam in ultima istanza tornerà sotto il controllo dei musulmani” come affermò perfino Anwar Sadat dopo aver firmato la storica pace Egitto-Israele del 1979. In ultima istanza, il maggior intento del piano di Trump è dunque di liberare il campo da ogni possibile dubbio sul fatto che Israele non sparirà dal Medio Oriente perché ciò che più ha spinto i leader palestinesi a rifiutare gli accordi di pace di Camp David ed Annapolis è stato il timore di assumersi la responsabilità di una pace definitiva, conclusiva, senza appello. Questo spiega perché la scelta di Trump nel sostenere Israele è così netta. E fa comprendere perché i maggiori paesi arabi sunniti – Arabia Saudita, Emirati ed Egitto – hanno reagito al piano di Trump con il linguaggio della realpolitik chiedendo ad Abu Mazen di “iniziare a negoziare” ovvero di accettare anzitutto la premessa del piano della Casa Bianca: è ora di ammettere che Israele è parte integrante del Medio Oriente.

(Da: La Stampa, 1.2.20)