Rifiuto, odio, violenza. E’ questa la “nuova strategia” della futura leadership palestinese?

Lasciano poco spazio alla speranza le interviste a “intellettuali palestinesi indipendenti che chiedono un cambiamento”

Di Marco Paganoni

Ramzy Baroud, autore delle interviste citate nell’articolo

Da tempo le critiche più severe alla “corrotta, litigiosa e incompetente” leadership palestinese provengono dall’interno dello stesso mondo palestinese, tanto che quasi non fanno più notizia. Le condivide, ad esempio, il giornalista e scrittore Ramzy Baroud, secondo il quale per i palestinesi è tempo di pensare a “un nuovo inizio”, vale a dire “un nuovo discorso politico, con nuovo personale politico e una nuova visione del futuro basata su unità, credibilità e competenza”. Lo ha scritto lo scorso 18 gennaio sul sito di al-Jazeera aggiungendo, a scanso d’equivoci: “Niente di tutto ciò potrà mai accadere con le stesse vecchie facce, lo stesso linguaggio stanco e la stessa politica senza sbocchi”.

Come non essere d’accordo? Baroud è così convinto della necessità di “una nuova strategia” che ha voluto dar voce ai palestinesi che “chiedono un cambiamento”. Per questo ha intervistato “quattordici intellettuali palestinesi indipendenti, di diversi luoghi e generazioni e diverse scuole di pensiero ideologico”. Una lettura che abbiamo affrontato pieni si speranza.

L’inizio non è molto incoraggiante. “Non abbiamo alcun bisogno di inventare una nuova Palestina o una nuova strategia nazionale – dice lo storico Salman Abu Sitta, presidente della Palestina Land Society – Dobbiamo tornare alle radici. Dobbiamo spazzare via il peccato di Oslo, che per la causa palestinese è stato più dannoso della Dichiarazione Balfour”. Abu Sitta auspica “una nuova leadership giovane, efficiente e pulita” e aggiunge, vagamente minaccioso: “Questo è il momento di agire, non di chiacchierare. Facciamolo”.

Mohammad Nofal: “Il popolo palestinese merita una leadership che non abbia paura di abolire Oslo, cancellare il riconoscimento di Israele e riprendere tutte le forme di resistenza”

Suona piuttosto minaccioso anche Ibrahim Sa’ad, scrittore e accademico con sede nel Regno Unito. “Una terza intifada è d’obbligo – afferma – Sarà un passo verso la costruzione di uno stato democratico con pari diritti per tutti, che garantisca il diritto al ritorno dei profughi palestinesi”. E aggiunge: “Gli israeliani devono subire le amare conseguenze delle loro azioni se rifiutano di adattarsi alla soluzione a uno stato unico”. Circa la vecchia guardia, la sua opinione è netta: “Se Abu Mazen e il gruppo che gli sta attorno vogliono passare alla storia come uomini coraggiosi devono uscire dall’arena politica. Mi rendo conto che questo può creare il caos, in particolare quando sta per concretizzarsi una terza intifada. Ma va fatto”.

La soluzione “a due stati” (presumibilmente uno arabo e uno ebraico, anche se non viene mai detto perché in realtà si intende uno judenrein e l’altro misto, ma presto a maggioranza araba) non piace per niente. “Qualcuno una volta mi ha detto che mandiamo avanti a calci il cavallo morto della soluzione a due stati – dice Mazin Qumsiyeh, scienziato e direttore del Museo di Storia Naturale della Palestina a Betlemme – Gli ho spiegato che si tratta di un cavallo illusorio, inventato da Ben-Gurion negli anni ‘20 per scopi di propaganda”. Secondo Qumsiyeh, “uno stato condiviso da tutti i popoli del paese” è l’unico modello che può “porre fine al colonialismo e all’oppressione sionista”. E conclude: “Sono molto ottimista sul fatto che il sionismo finirà. Noi, 12 milioni di palestinesi e milioni di altri, faremo in modo che ciò avvenga prima di quanto ci si aspetti. È ora di riprenderci la lotta di liberazione da coloro che l’hanno dirottata”.

Condivide Yousef Aljamal, laureando all’Università di Sakarya, in Turchia: “I palestinesi devono smetterla di chiedere una soluzione a due stati”. Devono invece “adottare una nuova strategia” volta a “punire Israele a livello internazionale, intensificando la campagna del movimento BDS” (per il boicottaggio di Israele). “I palestinesi devono lanciare un movimento di resistenza popolare su vasta scala contro l’occupazione israeliana facendo leva sul sostegno che la Palestina ha acquisito a livello mondiale”. Per farlo, ci vuole “un fronte palestinese unificato, che rifletta le aspirazioni dei palestinesi” e che non includa “le élite del periodo precedente che si sono dimostrate una grande delusione per il nostro popolo”.

Samaa Abu Sharar: “Incoraggiare tutte le forme di resistenza nella Palestina occupata, compresa la resistenza armata”

Samaa Abu Sharar: “incoraggiare tutte le forme di resistenza, compresa la resistenza armata”Anche Lamis Andoni, scrittrice e giornalista che vive ad Amman (Giordania), ritiene inutile “stare a discutere se vogliamo una soluzione a due stati o uno stato: dobbiamo invece concentrarci sull’unire i palestinesi attorno all’obiettivo di liberare la Palestina smantellando il progetto coloniale sionista”. E sottolinea: “Il movimento BDS è uno strumento cruciale in questa lotta, ma non può essere l’unica forma di resistenza. Dobbiamo trascinare i rappresentanti israeliani davanti alla Corte Internazionale di Giustizia e processarli per crimini di guerra. Ma innanzitutto dobbiamo porre fine alla nostra forte dipendenza dagli aiuti esteri, in particolare degli Stati Uniti, che vengono usati per addomesticare l’Autorità Palestinese facendone un poliziotto al servizio degli israeliani”.

“Dobbiamo porre fine a ogni coordinamento sulla sicurezza con Israele” le fa eco Mohammad Nofal, che si definisce “ex prigioniero politico” e insegnante in pensione. E aggiunge: “Qui in Palestina capiamo bene che ciò che è stato preso con la forza può essere riscattato solo con la forza, e non con un processo di pace che sin dall’inizio non è mai stato genuino”. Conclude: “L’unica parte che continua a parlare di una soluzione a due stati è la debole leadership palestinese. Ma il popolo palestinese è coraggioso, forte e risoluto e merita una leadership altrettanto coraggiosa che non abbia paura di abolire Oslo, di cancellare il riconoscimento di Israele e, sì, di riprendere tutte le forme di resistenza”.

Iyad Burnat: “Una leadership nazionale unificata che organizzi un’intifada internazionale”

Dall’Australia, condivide Samah Sabawi, scrittrice poetessa e consigliera politica del network palestinese Al-Shabaka: “Oggi è necessario che l’Autorità Palestinese cessi immediatamente ogni collaborazione con Israele sulla sicurezza”; “la vecchia guardia all’interno di Olp e Autorità Palestinese, bloccata nel disperato tentativo di trovare un nuovo mediatore al posto degli Stati Uniti che salvi la soluzione a due stati, deve far posto a giovani generazioni capaci di guidarci in una lotta unitaria popolare”.

La giornalista Samaa Abu Sharar, che sta a Beirut (Libano), propone un piano preciso. Primo: “unire tutti i think tank palestinesi sotto un unico ombrello per elaborare una nuova strategia”. Secondo: “smantellare l’Autorità Palestinese e revocare gli accordi di Oslo”. Terzo: “eleggere una leadership giovane e alternativa, sotto l’egida dell’Olp” che “agisca per una soluzione ad un unico stato”. Quarto: “incoraggiare tutte le forme di resistenza nella Palestina occupata, compresa la resistenza armata, fino alla fine dell’occupazione”. Quinto: “mobilitare i palestinesi ricchi all’estero per creare un sistema di supporto morale e finanziario” ai profughi e ai palestinesi sotto occupazione.

Secondo Iyad Burnat, capo del comitato popolare contro “il muro” nel villaggio di Bil’in, in Cisgiordania, i piani di Donald Trump non sono altro che “la continuazione del progetto sionista” di “evacuare gli abitanti indigeni del paese attraverso la pulizia etnica allo scopo di edificare uno stato puramente ebraico”. A suo parere, “l’unica via per uscire da questa crisi è abolire l’Autorità Palestinese e istituire una leadership nazionale unificata che includa tutte le fazioni della resistenza” (Fatah, Hamas, Jihad Islamica…) e “organizzi un’intifada popolare che attiri l’attenzione e il supporto di un gran numero di persone in tutto il mondo: un’intifada internazionale”. L’obiettivo è una “Palestina post-sionista” dove possano “tornare tutti i palestinesi esiliati”.

Soluzione a due stati. Uno stato palestinese che riconosca i diritti delle minoranze, smetta di sostenere il terrorismo anti-israeliano e viva in pace a fianco dello stato ebraico. “Si chiamerà Fantasilandia!”

A fronte dei piani di Trump, rassicura dal canto suo Sam Bahour, presidente di Americans for a Vibrant Palestinian Economy, “i palestinesi hanno mostrato una grandissima maturità politica non smuovendosi dalla loro strategia, allineata a livello internazionale”.

Suona tutto un po’ troppo familiare, per essere una nuova strategia? Beh, inutilmente si scorreranno le interviste fino all’ultima alla ricerca di un pensiero diverso. Randa Abdel-Fattah, accademica alla Macquarie University di Sydney (Australia): “Dobbiamo andare avanti a tutto gas con il movimento BDS”. Haidar Eid, professore associato all’Università Al-Aqsa di Gaza: “La soluzione sta in un completo divorzio dal discorso razzista della soluzione a due stati”. Rawan Yaghi, scrittrice di Gaza, ex studentessa dell’Università di Oxford: “La leadership palestinese ha perso la fiducia dei palestinesi”, “gli sforzi in corso per isolare e boicottare Israele non bastano, bisogna fare molto di più su questo fronte”.

Conclude Ahmad Khaleel Al-Haaj, scrittore di Gaza: “Qualunque composizione proposta da qualsiasi mediatore, in questo caso gli Stati Uniti, è solo un trucco per distoglierci dall’agire secondo la regola universale: battersi per una vittoria decisiva. Coloro che hanno sostenuto Oslo hanno solo guadagnarono lauti stipendi per sé e le loro famiglie. Eppure il nemico non ha potuto e non potrà ottenere una vittoria risolutiva. La lotta continua e continuerà finché non torneremo vittoriosi nella nostra patria”.

Ricapitolando. La non meglio identificata “nuova leadership” palestinese dovrà rinnegare il processo di pace e il riconoscimento di Israele, abbandonare risolutamente ogni soluzione a due stati, combattere Israele con tutti i mezzi – dalla lotta armata, al boicottaggio, alla delegittimazione internazionale – e scatenare nuove intifade, anche a livello internazionale, restando cocciutamente attaccata alla strategia e agli obiettivi di sempre. In sintesi: rifiuto, odio, violenza. Ecco dunque il “nuovo” corso grazie al quale, dobbiamo credere, trionferanno la giustizia e la pace. Ma anche no.

(Da: informazionecorretta.com, 5.2.18)