Israele, riforma della giustizia: se le sfumature difettano da entrambe le parti

Per introdurre nel dibattito equilibrio e misura, bisogna rendersi conto che entrambe le parti nutrono legittime preoccupazioni

Di Yaakov Katz

Yaakov Katz, autore di questo articolo

Equilibrio e misura, ecco ciò che manca nell’infuocato dibattito israeliano sulla riforma giudiziaria. A destra, dove il ministro della giustizia Yariv Levin e il presidente della Commissione legale della Knesset, Simcha Rothman, procedono a testa bassa con indifferenza, quando non disprezzo, verso l’altra parte. E nell’opposizione (che non è solo di sinistra ndr), i cui leader Yair Lapid e Benny Gantz affermano di volere il dialogo ma poi, quando gli viene offerto, pongono precondizioni tali da farlo saltare. Ed è stato un errore. Quando una settimana fa è stato offerto loro un incontro, il disegno di legge sarebbe stato comunque fermo per tutta la settimana. Lapid e Gantz avrebbero potuto incontrarsi con Levin e Rothman e decidere nel giro di un’ora se c’era o meno un terreno comune su cui lavorare. Invece, dicendo che non avrebbero trattato se non veniva previamente bloccato del tutto l’iter della legge, hanno dimostrato che ciò che stava loro a cuore era soprattutto non perdere lo slancio delle massicce proteste di pazza.

Il problema è che per avere un po’ di equilibrio e misura, bisognerebbe rendersi conto che entrambe le parti nutrono preoccupazioni legittime. Nell’opposizione c’è il timore autentico che queste riforme, andando avanti, possano segnare la fine della democrazia liberale (governo della maggioranza, sì, ma limitato da contrappesi e garanzie su diritti civili e delle minoranze ndr). La loro preoccupazione è legittima. Alcune delle proposte avanzate sono estreme e andrebbero come minimo attenuate.

Dall’altra parte c’è un autentico sentimento di privazione dei diritti civili, percepito da un considerevole numero di israeliani – di destra, mizrahim (mediorientali) e haredim (ultrra-ortodossi) – che da anni non ritengono protetti né rappresentati dalla massima magistratura i loro diritti e il loro stile di vita. Quello che avvenne in occasione del disimpegno dalla striscia di Gaza nel 2005 (deciso da una risicatissima maggioranza parlamentare e attuato con estrema energia ndr) per molti fu un autentico trauma, una ferita non rimarginata. Il fatto che solo 11 giudici mizrahi abbiano mai fatto parte della Corte Suprema sul totale di 72 non ha aiutato. Nel complesso, questo ha dato a molte persone la sensazione che la Corte non le rappresenti.

Contestazione di parlamentari dell’opposizione, lunedì, durante la discussione alla Knesset sulla riforma giudiziaria

Quando oggi a sinistra avvertono che, se la classe politica si attribuirà il potere di nominare i giudici, ciò minerà la fiducia nella Corte, dovrebbero ascoltare cosa dicono i loro concittadini di destra e religiosi, molti dei quali hanno perso la fiducia nella Corte già da vent’anni.

Se si vuole arrivare a un compromesso, prima bisogna capire cos’è che preoccupa l’altra parte. Le centinaia di migliaia di manifestanti scesi nelle strade provengono da tutti i ceti sociali e da tutte le parti del paese; sventolano bandiere israeliane e gridano slogan a favore della democrazia. Non ci sono dubbi sul loro autentico sostegno al sistema democratico. Ma queste persone dovrebbero anche preoccuparsi di come funziona attualmente il Comitato di nomina dei giudici. Qualcuno ha mai visto i verbali dei lavori di questo Comitato? Qualcuno ha mai potuto assistere a un’udienza o vedere cosa vi accade, come avviene per i lavori delle commissioni della Knesset? I giornalisti possono riferire delle udienze del Comitato e spiegare come vengono prese le decisioni? E’ democratico un processo senza apertura né trasparenza?

Poi c’è la questione della “ragionevolezza”, il criterio con cui la Corte Suprema prende decisioni come quella di impedire al presidente dello Shas, Arye Deri, di fare il ministro. Sia chiaro: il fatto stesso che Deri – un politico già condannato due volte per reati fiscali – venisse nominato ministro è stata una macchia per Israele. Netanyahu non avrebbe dovuto nominarlo. Deri non dovrebbe stare nel governo e nemmeno alla Knesset. Ma una volta che si è potuto legalmente candidare ed è stato eletto, una volta che 400mila elettori e 64 parlamentari hanno ritenuto ragionevole che diventasse parlamentare e ministro, con tutto il rispetto per i giudici come ha potuto la Corte stabilire che farlo era “irragionevole”?

Decine di migliaia di manifestanti israeliani, lunedì davanti alla Knesset, contro la prospettata riforma giudiziaria

Si potrebbe andare avanti e analizzare altre parti della riforma proposta, ma non è questo il punto. Quello che voglio dire è che si dovrebbe introdurre nel dibattito delle sfumature che invece difettano gravemente da entrambe le parti. Ciò che si vede prevalere è la non volontà di arrivare a un compromesso che avvantaggerebbe tutta la popolazione israeliana.

Ciò che spinge grandi folle a scendere in piazza non è tanto il modo in cui saranno nominati i giudici, quanto piuttosto cos’altro potrà accadere alla nostra società dal momento in cui si vareranno riforme così radicali. Quasi tutti concordano sulla necessità di riforme della giustizia, ma la domanda è quali e di quale entità. Ciò che temono le persone scese in piazza è che questo sia solo l’inizio, e che riforme giudiziarie di vasta portata conferiscano poteri illimitati alla Knesset. A quel punto, un omofobo come Avi Maoz potrà plasmare a modo suo l’istruzione dei nostri figli? Deri farà passare il suo disegno di legge per far processare le donne in maniche corte al Kotel (Muro del Pianto)? Gli haredim potranno abolire il disegno di legge sull’arruolamento nelle Forze di Difesa? Eliminati controlli e contrappesi, cosa impedirà che vengano danneggiati in questo i nostri diritti civili? Questa è la democrazia che la gente teme di perdere, e queste preoccupazioni non possono essere ignorate. Il governo deve tenerne conto e deve rispondere ai timori che ogni settimana spingono in piazza centinaia di migliaia di persone.

Il presidente Isaac Herzog ha proposto un compromesso che potrebbe essere accettabile per entrambe le parti. Circolano anche altre idee, formulate da vari esperti giuristi e centri di ricerca. Le parti dovrebbero incontrarsi, parlare, trattare e trovare un terreno comune. C’è un solo stato d’Israele e c’è una sola Corte Suprema a Gerusalemme. Si mettano da parte le mire politiche e si faccia quello che vuole la maggior parte della gente: trovare un compromesso.

(Da: Jerusalem Post, 17.2.23)