Santi sabotatori

I media dellAutorità Palestinese continuano a incensare i terroristi col titolo di shahid.

Di Itamar Marcus, Barbara Crook

image_597Una delle più sorprendenti, ed efficaci, strategie dell’Autorità Palestinese sotto Yasser Arafat era quella di inviare un messaggio in inglese ai media internazionali e nello stesso tempo un altro messaggio, spesso in contraddizione col primo, ai palestinesi in arabo.
All’indomani dell’attentato del 25 febbraio sul lungomare di Tel Aviv (5 morti), il primo attentato suicida riuscito da quando Mahmoud Abbas (Abu Mazen) si è ufficialmente insediato alla presidenza dell’Autorità Palestinese, appare evidente che i media palestinesi sotto la nuova gestione insistono con i vecchi standard dei tempi di Arafat.
Mentre i media internazionali prendevano per buona la condanna ufficiale dell’attentato diramata dall’Autorità Palestinese, nello stesso tempo i mass-media controllati dall’Autorità Palestinese hanno continuato a incensare l’attentatore gratificandolo del titolo di shahid (martire caduto per Allah), la più nobile forma di affermazione umana per un musulmano. Accordando all’assassino lo status di shahid, i media dell’Autorità Palestinese continuano a dipingere l’atto di compiere una strage terroristica come un gesto di alto valore religioso.
In questo contesto, anche le condanne ufficiali vanno intese non come censure del gesto in sé di compiere una deliberata strage di civili innocenti, bensì come biasimo per le sue conseguenze, in quanto danneggia la causa palestinese.
Il servizio dedicato all’attentato sulla prima pagina del quotidiano ufficiale dell’Autorità Palestinese Al-Hayat Al-Jadeeda di domenica (27.02.05) riportava in evidenza una grande foto a colori del terrorista con la didascalia: “L’esecutore dell’operazione a Tel Aviv, lo shahid Abdullah Badran”. Un’altra foto mostrava la madre dell’attentatore con in mano la foto del figlio e la didascalia: “La madre dello shahid”. Il quotidiano Al-Ayyam parlava della “famiglia dello shahid”. Anche Al-Quds parlava della “famiglia dello shahid Abdullah”, dell’arresto “dei due fratelli dello shahid” e di una “tenda del lutto in memoria dello shahid”. Un precedente articolo su Al-Ayyam aveva definito l’attentatore uno Istish-hadi, vale a dire uno shahid che cerca attivamente e con successo la morte in nome di Allah.
Per cogliere il significato dello status che i media palestinesi conferiscono al terrorista dell’ultima strage a Tel Aviv definendolo uno shahid, basta vedere quali ricompense attendono lo shahid secondo la descrizione che ne fece qualche anno fa un leader religioso sulla televisione palestinese: “Quando lo shahid incontra il Creatore, tutti i suoi peccati vengono rimessi sin dal primo fiotto di sangue, ed egli viene esentato dai tormenti della tomba. Egli contempla il suo posto in paradiso, è posto al riparo dal Grande Colpo e sposa 72 fanciulle dagli occhi scuri. Egli diviene intercessore celeste per 70 membri della sua famiglia e sul suo capo viene posta la corona d’onore, ogni singola pietra della quale vale più di tutto ciò che esiste al mondo” (dottor Isma’il al-Raduan, tv dell’Autorità Palestinese, 17.08.01).
Di conseguenza, l’uso dei termini “shahid” e “Istish-hadi” per indicare il terrorista di Tel Aviv non lascia alcun dubbio circa il messaggio che i media palestinesi inviano al loro pubblico riguardo al giudizio su questo attentato terrorista: questa strage e questa morte in nome di Allah, come quelle che l’anno preceduta, rappresenta il supremo e più nobile gesto di un fedele musulmano.
Data questa definitiva venerazione per l’atto assassino, le critiche dell’attentato suicida sui media controllati dai palestinesi si sono focalizzate sull’infelice “scelta del momento” e sul fatto che l’attentato costituisse una violazione dell’accordo fra Abu Mazen e Hamas di sospendere l’uccisione di civili durante il provvisorio cessate il fuoco. La strage viene dunque biasimata in quanto dannosa per la politica dell’Autorità Palestinese e niente di più. Come negli anni di Arafat, l’atto in se stesso non viene definito né immorale né sbagliato.
Lunedì (28.02.05) il parlamentare palestinese Hassan Asfour l’ha messa in questi termini, parlando alla tv palestinese: “Questa è stata la prima operazione di cui sono tutti scontenti. Tutti hanno la sensazione che non era il momento e che non ce n’era alcun bisogno… Non è che la resistenza contro l’occupazione sia un errore. E’ che la natura, il luogo e il momento di questa operazione sono sbagliati”.
Anche Abu Mazen, nell’esprimere la sua condanna, è stato attento a non criticare l’azione in se stessa quanto piuttosto il danno che causa ai palestinesi: “Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas ha definito l’operazione… un condannabile atto di sabotaggio, attribuendo a una terza parte la responsabilità della sua esecuzione con lo scopo di mettere a repentaglio il processo di pace e danneggiare la reputazione del popolo palestinese. Il consigliere del presidente Nabil Abu Rudeineh ha condannato ‘questa operazione soprattutto per il fatto che giunge dopo la hudna [tregua provvisoria] e la calma raggiunte con le fazioni… L’Autorità Palestinese è contraria a qualunque operazione che colpisca civili perché ciò fa parte della hudna che è stata dichiarata a Sharm e-Sheikh. Siamo contrari a ogni violazione della hudna’. Rudeineh ha chiarito inoltre che questo tipo di operazioni danneggiano i supremi interessi nazionali del popolo palestinese”.
Sotto la leadership di Abu Mazen il messaggio alla società palestinese resta essenzialmente lo stesso dei tempi di Arafat. I capi dell’Autorità Palestinese condannano il momento e i potenziali effetti negativi di un attentato terroristico, ma non l’atto in se stesso.

(Itamar Marcus e Barbara Crook, di Palestinian Media Watch, su: Jerusalem Post, 2.03.05)

Nell’immagine in alto: Una caricatura dai tratti antisemiti sul quotidiano ufficiale dell’Autorità Palestinese Al-Hayat Al-Jadeeda, 13.02.05.