Savyion Liebrecht

Mele dal deserto

MELE DAL DESERTO

Per tutto il tragitto da Shaare Hesed (1) fino all’ampio tavoliere sabbioso che il conducente, ad alta voce, aveva chiamato “Navè Midbar”, cercandola nello specchietto retrovisore, Victoria Abrebanel – col cuore in tumulto e i pugni serrati – aveva pensato soltanto a una cosa. Ben quattro volte era salita e scesa da autobus nelle stazioni, si era sciolta ripetutarnente il fazzoletto del sabato che le avvolgeva la testa e che il vento aveva scomposto, aveva estratto dalla cesta una mela bacata e un pezzo di pane avvolto nella carta marrone e aveva recitato la preghiera della frutta e poi quella del viaggio, secondo il rituale. Si era arrabbiata ogni volta che i passeggeri l’avevano urtata, aveva tenuto gli occhi fissi sul paesaggio che andava ingiallendosi e le si apriva dinnanzi, ma il cuore era tutto rivolto a sua figlia Rivka, la ribelle, che sei mesi prima aveva abbandonato il quartiere e si era trasferita in un kibbutz di laici. Ora, grazie a sua sorella Sara, aveva persino scoperto che divideva la stanza con un ragazzo, dormivano nello stesso letto e si comportava come se fosse sua moglie.
Durante le otto ore del viaggio aveva pensato e ripensato a come comportarsi una volta faccia a faccia con la figlia: forse le avrebbe parlato con tono moderato, conversando come se non fosse arrabbiata, illustrandole quant’era importante l’onore di una ragazza agli occhi di un uomo e spiegandole, da donna a donna, il significato della castità. O forse avrebbe iniziato a urlare di dolore, raccontandole con un grido tutta la sua sofferenza, l’onta immensa che aveva gettato sulla sua nobile famiglia: avrebbe alzato la voce come una prefica, in modo che anche i vicini sarebbero accorsi e avrebbero sentito tutto. Oppure avrebbe compiuto la sua missione con astuzia, attirando la figlia fuori di là con un tranello, poi l’avrebbe chiusa a chiave nella sua stanza e ne avrebbe fatto perdere le tracce.

O forse l’avrebbe terrorizzata, raccontandole la storia di Flora, la figlia di Yosef Elaluf, che dopo avere seguito un ragazzo e avergli donato la sua verginità, era stata abbandonata, era diventata pazza e aveva preso a vagabondare per le vie tirando i bambini per le orecchie.

Per la strada che si allontanava da Beer Sheva, le venne in mente un’altra possibilità: assalire il ragazzo con le unghie, staccargli la pelle di dosso e trafìggergli gli occhi per quello che aveva fatto alla sua figlia minore. Così l’avrebbero scacciato con infamia e sua figlia sarebbe tornata a Gerusalemme. Questo infatti aveva
promesso alla sorella: “La riporterò indietro per i capelli”.
L’aveva saputo da Sara, che andava a trovare la nipote all’inizio di ogni mese: quando lo conobbe aveva sedici anni. Lui era un sergente dell’esercito, l’avevano condotto davanti alle ragazze per dare informazioni sul servizio militare per le ortodosse. In seguito, qualcuno aveva gridato allo scandalo perché avevano permesso ai militari di venire ad avvelenare il cuore delle fanciulle: ma quello di Rivka ormai, non era più immacolato.

Agendo con astuzia, lui le faceva recapitare delle lettere per mano di un amica anche dopo essersene tornato al kibbutz. E lei, la stupida, che non si distingueva né per grazia né per bellezza, lei, che tutti, sin da quando era
una bambina, scambiavano per un maschio, aveva perduto la testa e, compiuti i diciott’anni, l’aveva raggiunto nel deserto.

Man mano che si allontanava da Beer Sheva, il coraggio l’abbandonava e le scene che aveva immaginato le strapparono un sospiro: cosa sarebbe successo se Rivka le avesse voltato la schiena e l’avesse cacciata? E se il ragazzo l’avesse picchiata? Dove avrebbe pernottato se le avessero sbattuto la porta in faccia dato che l’autobus partiva solo la mattina dopo? E se non avessero ricevuto il messaggio che Hayyim, il padrone del chiosco, aveva comunicato per telefono? Lei non era pratica di motel, erano quattro anni che non
lasciava il quartiere, da quando Sifra Ben Sasson, la sterile di Tiberiade, aveva partorito un figlio.
Senonché, il conducente gridò ancora “Navè Midbar”, osservandola nello specchietto mentre scendeva dall’autobus e si trascinava dietro la cesta.

Rimase in piedi sulla sabbia, col vento secco che le graffiava la gola, le membra appesantite per essere stata a lungo seduta e gli occhi accecati dal sole. Depose la cesta in terra e rimase a guardare il paesaggio come se
fosse arrivata in una terra straniera: davanti a lei si estendeva, a perdita d’occhio, una piatta discesa gialla, spoglia, su cui si stagliavano, in una nuvola di polvere, alberi dai colori sbiaditi. Com’era possibile abbandonare
l’aria pura di Gerusalemme, i suoi bei monti, e venire qui?
Prima che potesse arrivare a un sentiero lastricato e trovare una donna cui chiedere di Rivka, il sudore le gocciolava sotto il fazzoletto. Victoria fece alcuni passi e, voltando la testa, osservò la donna che aveva le
braccia cariche di stoviglie impilate una sull’altra: le gambe erano nude e ai piedi portava delle scarpe maschili su cui aveva arrotolato un paio di calze militari. Sul sentiero di fronte stava arrivando una ragazza coi capelli corti, che indossava dei pantaloni. La donna disse: “Eccola, Rivka” e Victoria, che stava già per rispondere: “Non intendevo quella”, da vicino riconobbe la figlia ed emise un grido che suonò come un singhiozzo. La ragazza posò la cesta del bucato che teneva in mano e le corse incontro, mentre lei già si sentiva il capo dolente e gli occhi gonfi di lacrime.

“Cos’è.., Cos’è…” disse, asciugandosi il naso, “dove sono le tue trecce? E i pantaloni… Vai vestita in questo modo? I miei poveri occhi!”
Rivka le rise in faccia: “Sapevo che avresti detto così. Volevo cambiarmi ma non ho fatto in tempo. Pensavo che arrivassi con l’autobus delle quattro. A che ora sei uscita di casa? Alle sei?”
“E perché non alle cinque?”
“Vieni, vieni. Basta piangere. Qui c’è la nostra stanza, e questo è Dubi”.
Ancora sbigottita alla vista dei capelli corti, dei calzoni sfrangiati e rattoppati dietro, e delle scarpe macchiate di sterco di gallina, Victoria si ritrovò serrata fra due grandi braccia, con un faccione chiaro davanti agli occhi e una voce maschile che diceva: “Ciao, mamma”.
Lui le aveva già preso la cesta dalle mani mentre la figlia la conduceva, imbarazzata e solerte, in una camera in ombra, dove fu messa a sedere su una seggiola. Si ritrovò subito in mano un bicchiere di succo e continuò a
guardarsi intorno senza comprendere ciò che stava vedendo, poi focalizzò l’ampio letto coperto da una trapunta ricamata e ricordò la voce del gigante dai capelli biondicci che continuava a dirle: “Benvenuta, mamma”. Lei,
quando lo risentì dire esplicitamente “mamma”, sorseggiò timidamente il succo ma il liquido le andò di traverso e prese a tossire; entrambi si precipitarono a batterle la schiena come si fa con un bambino quando non riesce più a deglutire.
“Lasciatemi” disse debolmente, allungando le braccia per toglierseli di torno e, dopo un istante aggiunse: “Fatti vedere”. Poi la rimproverò ancora:
“Cosa sono queste scarpe? Sono queste le tue scarpe del sabato?”. Rivka rise: “Questa settimana lavoro nel pollaio. Sono arrivate delle galline nuove. In genere sto nell’orto. Soltanto questa settimana mi occupo del pollaio”.
Stanca per il viaggio, stordita da ciò che aveva visto e turbata dalle peripezie della giornata, trattenendo a forza la determinatezza che sentiva svanire suo malgrado, e rammentando continuamente a se stessa la propria
missione, Victoria sedette con la figlia Rivka e le parlò come non aveva mai fatto coi suoi figli. Non si ricordava di cosa avessero parlato, né ricordava a che punto se n’era andato il ragazzo che la chiamava mamma;
aveva notato soltanto una cosa: sua figlia aveva un aspetto eccellente. Fin da bambina, i suoi occhi non erano mai stati così raggianti. Anche i capelli corti, ammise con se stessa, le donavano. Era proprio lei, in tutta la sua
figura. Non come quando, in gonna e calzettoni, con le spalle troppo larghe, pareva un uomo vestito da donna.
“Non hai nostalgia del quartiere?”.
“A volte sì. Nelle sere di festa. Mi manca la tavolata del sabato, i canti e la risata di zia Sara. Ma qui sto bene. Mi piace lavorare fuori, con gli animali… Anche di te ho tanta nostalgia”.
“E di papà?” chiese Victoria con un sussurro, nella luce del crepuscolo che cominciava a filtrare.
“Papà non si è mai interessato a nessuno. Tanto meno a me. Tutto il giorno nel negozio, con i libri e le preghiere. Quasi non fossi sua figlia.”
“Per carità. Non dire così” si spaventò Victoria. Era colpita da quella verità.
“Voleva fidanzarmi col figlio di Yekutiel. Come se fossi vedova o zoppa”.
“Davvero?”
“Non prenderti gioco di me. Come se non lo sapessi”.
“Ne avevano parlato. Da noi non si fanno fidanzamenti combinati. E, a parte questo, il figlio di Yekutiel è un dotto del Talmud”.
“Un dotto pallido e malato, come se stesse tutto il giorno dentro a un buco. E a parte questo, io non lo amo”.
“Cosa credi, che l’amore sia tutto?”.
“Ma cosa ne sai, tu, dell’amore?”.
“Che cosa significa?” si offese Victoria raddrizzandosi sulla sedia, “si parla in questo modo alla propria madre, qui?”.
“Tu non amavi papà e lui non amava te” disse Rivka, fìngendo di non sentirla; poi, nel silenzio che era piombato all’improvviso, aggiunse: “Io, in casa… non contavo molto”.
“E qui?” domandò Victoria con un filo di voce.
“Qui conto di più”.
Nella mente di Victoria cominciava a prendere forma una domanda che riguardava Dubi, il gigante biondiccio, ma la porta si aprì, la luce si accese e Dubi in persona esclamò: “Brave, fate bene a risparmiare la luce.
Vi ho portato qualcosa da mangiare. Formaggio e verdure in un piatto di plastica nuovo, va bene, no? Poi è meglio che porti la mamma nella stanza di Osnat, che è libera. Di certo sarà stanca”.
Nella stanza che dava sui campi ingrigiti, Victoria provò a fare un po’ di ordine nel suo cuore. Anni di dolore avevano sconfitto la sua aggressività; già lo sapeva: non avrebbe riportato sua figlia a Gerusalemme trascinandola
per i capelli. All’improvviso le cose si erano capovolte: era venuta per urlare, invece aveva trovato se stessa e le si era seccata la lingua.
“Perché ci hai messo sei mesi a venire qui?” aveva infierito Rivka.
“Tuo padre non voleva che venissi”.
“E tu, non hai una volontà tua?”.
Non aveva trovato nessuna risposta.
Quando Dubi arrivò e la portò al refettorio, riversò su di lui tutta la rabbia; ma ne era già attratta, e questo fatto aumentò il suo furore.
“Ma che significa Dubi, che razza di nome è?”.
Fu la collera a tirarle le parole fuori di bocca.
“Sta per Dov, era questo il nome di mio nonno materno. I tedeschi l’hanno ucciso durante la guerra”.
“Ma Dov ti sembra un bel nome per un bambino?” chiese, dura.
“Non mi dispiace” rispose lui, stringendo le spalle. Poi si fermò e, con allegra serietà, disse: “Ma se ti da fastidio, domani lo cambio”. Lei trattenne a forza le risa.
La sera sedettero allo stesso tavolo, gli occhi fissi su Rivka, come se nell’ampio salone esistesse solo lei che si aggirava col carrello delle vivande, domandando alle persone cosa desiderassero mangiare.
“Vuoi ancora da bere, mamma?” sentì che le chiedeva Dubi, facendo aumentare la sua rabbia.
“Mi chiami mamma. Ma che razza di mamma sono, per te?”.
“Muoio dalla voglia che tu sia la mia mamma”.
“Sì? E chi te lo impedisce?” chiese, con la voce che si tingeva dei toni canzonatori tipici di sua sorella Sara.
“Tua figlia.”
“E come?”
“Non vuole diventare mia moglie”,
“Mia figlia non vuole sposarsi? Che cosa mi stai dicendo?”.
“È la verità”.
Mentre Victoria era ancora tutta agitata per le parola appena udite, lui cominciò a raccontarle della piantagione di meli che coltivava all’ingresso della fattoria. Un ricercatore americano che coltivava mele nel deserto del
Nevada gli aveva spedito alcuni semi speciali. Si piantava il seme dentro delle cassette di latta riempite di concime organico e poi spuntava un albero alto come un bambino; aveva radici piccole, fioriva in estate e
produceva dei frutti come quelli dell’albero del paradiso terrestre. Il melo ama il freddo, spiegò mentre con lo sguardo cominciavano a seguire Rivka, e di notte bisogna aprire i teli di plastica per permettere al freddo del
deserto di entrare; all’alba, invece i teli vanno richiusi per mantenere l’aria fredda e tenere lontano il calore.
“Ma davvero” balbettò lei, ascoltando quelle parole ma riflettendo su ciò che era stato detto poco prima. Proprio in quel mentre le si avvicinò un tizio e le disse: “Sei la mamma di Rivka? Complimenti per tua figlia!”. Lei gongolò.
Allora le tornò in mente un ricordo, proveniente da giorni e da luoghi lontani. Aveva quindici anni. Tutti i sabati, in sinagoga, si scambiava delle occhiate con Mosè Elkayyem, figlio dell’orafo, poi abbassava lo sguardo sul pavimento. Incollata alla grata di legno dell’ezrat nashim (2), lo guardava passarsi tra le mani argento, oro e pietre preziose. Tra loro nacque qualcosa senza bisogno di parole e la sorella di lui, incontrandola per strada, le sorrideva amabilmente. Ma quando il mezzano venne a parlarle della richiesta di matrimonio avanzata da Abrebanel, non ebbe il coraggio di dare un dispiacere a suo padre, che la voleva maritare a un dotto del
Talmud.
La sera, mentre l’accompagnava in camera, Rivka le disse: “Eri venuta per riportarmi a Gerusalemme vero?”.
Sua madre preferì non rispondere, e dopo un pò cambiò discorso: “Non fare sciocchezze”.
“So quel che voglio”.
“Anche tua zia lo sapeva, quando aveva la tua età. E guarda che vita fa, adesso. Passa di casa in casa come un gatto”.
“Non preoccuparti per me”.
Victoria prese coraggio: “È vero quello che mi ha detto, che non vuoi sposarlo?”.
“Ti ha detto questo?”.
“E vero o non è vero?”.
“È vero”.
“E perché?”.
“Non sono ancora sicura”.
“E da chi hai imparato a fare così?”.
“Da te”.
“Che cosa?” si stupì Victoria.
“Non voglio vivere come te e papà”.
“Come?”.
“Senza amore”.
“Ancora l’amore!” esclamò la madre, battendosi le mani sui fianchi fino ad avvertire un fremito. Un gesto d’ira senza ira. Intanto erano arrivati alla porta. Tra un po’ Victoria avrebbe continuato a riflettere a letto sotto la
trapunta ricamata, e avrebbe ripensato alla sua ultima domanda: “E prima di andare a letto, non reciti lo Shemà? (3)”.
“No”.
“Non reciti lo Shemà?”.
“Solo a volte, in silenzio. Per non sentirmi” aveva risposto Rivka ridendo, poi aveva baciato la madre sulla guancia e aveva concluso: “Non spaventarti se sentirai gli sciacalli. Buonanotte”, parlando come una madre che
rassicura la sua bambina.

Davanti alle dune spoglie che nell’oscurità tracciavano morbide linee dentro la finestra come dentro la cornice di un quadro, Victoria recitò, con profonda partecipazione, la sua preghiera per entrambe. Il suo cuore per un
verso era più pesante ma per l’altro più leggero: “Che non mi turbino le preoccupazioni, gli incubi e i cattivi pensieri. Possa dormire in pace innanzi a te, e possa tu rendermi felice…
Quella notte fece un sogno.
Nel sogno vedeva un uomo di spalle che si avvicinava a delle tende bianche.
L’uomo spostava le tende, scoprendo gli alberi del paradiso terrestre: l’albero della vita, l’albero della conoscenza e altri alberi meravigliosi, che stavano dentro alcune cassette di latta piene di concime organico. Poi
si avvicinava al melo come bramandone i frutti, un frutto si staccava, cadendogli fra le mani, e a un tratto si rimpiccioliva diventando un mucchietto di semi. Victoria osservò meglio: quelle dita bianche stringevano
un pugno di pietre preziose, oro e argento. Improvvisamente quell’uomo aveva cambiato faccia e si era tramutato in Mosè Ben Elkayyem, figlio dell’orafo, coi capelli fiammeggianti.
Per tutto il viaggio di ritorno sedette con gli occhi ancora furibondi ma col cuore già riappacificato, tenendo accanto a sé la cesta e sulle ginocchia un sacco di mele dure come pietre, donate da Dubi; stava attenta a
stringere con le mani l’apertura del sacco per non rovesciare i frutti. Si ricordò della figlia che, sfiorandole una guancia con le dita, le aveva chiesto: “Vedi che e tutto a posto, no?” e della voce di Dubi che aveva assicurato: “Andrà tutto bene, mamma”.
Trascorse il viaggio cercando di studiare che cosa avrebbe raccontato al marito e alla sorella. Forse li avrebbe tatti sedere e avrebbe esposto i fatti così come stavano. Quando l’autobus oltrepassò Zomet Hayyim, cambiò
idea. Come avrebbe potuto descrivere a sua sorella, che in vita sua non aveva mai avuto un uomo, e a suo marito, che non l’aveva mai toccata con amore, lo sguardo di quel ragazzo di fronte a sua figlia? Quando apparvero in lontananza i monti di Gerusalemme, sapeva già che cosa avrebbe fatto.
Alla sorella che le leggeva nel pensiero, non poteva celare un segreto. Si sarebbe tolta il fazzoletto che portava legato in testa; le avrebbe avvicinato la bocca all’orecchio come facevano da bambine e le avrebbe sussurrato: “Sarika, io e te abbiamo fatto le nostre scelte di vita, io con un matrimonio e tu senza. La mia figlia minore mi ha insegnato una cosa. Ti ricordi che sembrava un po’ ritardata, Dio ce ne scampi? Ricordi come la commiseravo? Senza grazia né bellezza, senza intelligenza né talento, alta come Og re di Bashan. Volevamo darla in sposa a Yekutiel, e sembrava che ci facessero pure un favore, come se la biglia di Abrebanel non fosse abbastanza per loro. E guardala oggi”. A quel punto avrebbe voltato la testa e sputato energicamente come per esorcizzare i malefìci del demonio. “Latte e miele. Ed è pure saggia. E ride sempre. Forse, con l’aiuto di Dio, ci darà
delle soddisfazioni”.
Al marito, che non aveva mai saputo leggerle dentro il cuore, avrebbe servito mele con miele, si sarebbe messa le mani sui fianchi e gli avrebbe detto: “Non bisogna preoccuparsi per Rivka. Là sta bene, grazie a Dio. Fra
poco ci darà delle buone notizie. Adesso assaggia e dimmi: hanno meli che fioriscono in estate, utilizzano concime organico e le loro radici diventano piccole piccole. Avevi mai sentito una cosa del genere. in vita tua?”.

(1) Quartiere di Gerusalemme
(2) Parte della sinagoga riservata alle donne
(3) Si tratta della preghiera “Ascolta, Israele”, che viene recitata tre volte al giorno, di cui una prima di coricarsi.

[Questo racconto è tratto dalla raccolta Mele dal deserto, trad. di Carlo Guandalini, e/o, Roma 2001, ed è qui riprodotto per gentile concessione della casa editrice.]