Savyion Liebrecht

Recensione della raccolta Mele dal deserto

Savyion Liebrecht
Mele dal deserto
Traduzione di C. Guandalini
Edizioni E/O, Roma, 2001

In un suo recente testo di prossima pubblicazione in Italia, Sippur Chayim (Storia di una vita, 1999), lo scrittore israeliano Aharon Appelfeld ricorda una sua riflessione sulla scrittura: non è necessario scrivere in stile surreale, simbolico, perché ogni oggetto reale, posto in un certo modo in un certo passo della narrazione, può diventare fortemente simbolico. Questa osservazione sembra essere ancora più vera se si leggono i racconti di Savyon Liebrecht, nella raccolta Mele dal deserto, tradotti da Carlo Guandalini e pubblicati dalle Edizioni e/o. A questa si collega un’altra importante caratteristica dello stile di questa scrittrice israeliana: un racconto incentrato su un episodio apparentemente personale, intimo, femminile, sembra marginale rispetto alla storia del popolo ebraico, ma grazie alla precisione e alla delicatezza delle descrizioni dei personaggi e delle situazioni, sono proprio questi racconti quelli che riescono nel difficile compito di raccontare l’indicibile. Si tratta, spesso, dell’indicibile dell’esperienza dei sopravvissuti ai campi di sterminio nazista, e forse non c’è altro modo di raccontare se non questo: un modo che rispetta il non-detto, che riconosce le insormontabili difficoltà, che lascia intatti i silenzi. Una tale lucida semplicità, una tale incisività, si trovano solo nei racconti di Ida Fink.

In uno di questi racconti, La bambina delle fragole, Savyon Liebrecht racconta della presa di coscienza da parte di una donna tedesca della realtà del nazismo proprio attraverso le fragole del titolo, fragole « grosse come il pugno di un uomo, rosse d’un profondo rosso tendente al viola, gonfie di succo. Se le avessi spezzettate con le mani – m’immaginai – » dice la protagonista « il colore mi sarebbe penetrato nella carne e non sarebbe mai più scomparso ». Queste fragole abnormi, innaturali, gigantesche, così rosse da sembrare annaffiate con il sangue, crescono in un campo dove vengono buttati mucchi di cenere, la cenere dei corpi carbonizzati… Basta un episodio minimo, quasi insignficante, una bambina ebrea che contro ogni previsione sopravvive coltivando delle fragole mostruose, lussuose, fuori luogo, che reca in dono a una donna nazista, la quale le considera un lusso, una sua conquista personale di cui andare orgogliosa e di cui vantarsi con le amiche, ed ecco che queste fragole diventano improvvisamente simbolo di questa sfida, di questo scontro, di questo violento terrore quotidiano.

In modo diverso e tuttavia simile si snoda il racconto che dà nome alla raccolta, Mele dal deserto. Qui la “mela bacata” che la madre di una famiglia “ultraortodossa” estrae dalla cesta nel corso della narrazione subisce varie trasformazioni: diventa prima “un mucchietto di semi”, il segno che l’amore sognato in gioventù è stato cancellato da un matrimonio combinato; quindi si trasforma in “un sacco di mele dure come pietre”, il dono di un kibbutznik completamente “laico” con il quale la figlia della protagonista è andata a vivere. Queste mele vengono coltivate da lui stesso, “frutti come quelli dell’albero del paradiso terrestre”. E saranno queste stesse mele che la madre offrirà al marito, insieme al miele, come nel capodanno ebraico, per mostrargli la sua decisione di difendere la scelta della figlia, il suo nuovo inizio.

Ognuno di questi racconti meriterebbe una presentazione a se stante, sia che tratti del rapporto delle nuove generazioni israeliane con il passato dei loro genitori e dei loro nonni (come nel racconto La festa di fidanzamento di Hayuta), sia che il soggetto sia il rapporto tra israeliani e arabi, o semplicemente tra un uomo e una donna.

Savyon Liebrecht, nata a Monaco, in Germania, nel 1948, figlia di genitori sopravvissuti allo sterminio nazista, sembra una delle autrici più interessanti di quelle della nuova generazione degli scrittori israeliani. Di lei è apparso in italiano un altro libro, Prove d’amore (e/o, Roma 2000), un romanzo d’amore, certo, ma più di tutto una storia sulle difficoltà dei figli dei sopravvissuti in una società che, come quella israeliana, ha chiesto ai suoi membri di rimuovere il passato. Questa tematica ha trovato un suo spazio all’interno del panorama letterario israeliano solo dopo la comparsa delle opere di Aharon Appelfeld e di Vedi alla voce:amore e Il libro della grammatica interiore di David Grossman, ma qui, di nuovo, come accennato prima, oggetti apparentemente insignificanti, piccoli particolari, episodi della vita quotidiana, si trasformano in simboli carichi, pesanti di storia e di rimandi, scandiscono il tempo della presa di coscienza di una realtà sempre troppo dura, sempre troppo crudele, con la quale si deve sempre fare i conti. E anche una storia d’amore, proprio come la “Storia” con la s maiuscola, richiede questa lucidità.

Dell’uomo che ama e che ha perduto la protagonista del racconto Sulla linea del cerchio dice a se stessa: «Tutto gira sulla linea del cerchio. Quello che è stato sarà. Non tendere la mano al tempo, perché non si fermerà. Non continuare per forza le guerre – non esiste un vincitore. E permetti a un uomo di andare – la sua strada lo chiama, anche se lui non saprà mai dove. Poi ritornerà sempre.»

Letteratura “femminile” dunque, ma più semplicemente una letteratura discreta e dall’impatto fortissimo. Le immagini create da Savyon Liebrecht non si dimenticano facilmente e non si lasciano sommergere nel fragore delle troppe parole che ci invadono. Si tratta di alcune delle opere più significative fra quelle israeliane apparse di recente in lingua italiana.