Savyion Liebrecht

Incontro con Savyion Liebrecht

image_151Incontro con Savyon Liebrecht

A cura di Claudia Rosenzweig

Il 10 settembre scorso Savyon Liebrecht è stata a Milano, ospite dell’Ambasciata Israeliana e dell’Università degli Studi di Milano. In questa occasione ha tenuto due conferenze: la prima presso l’Università, aveva per tema “la presenza della Shoà nella mia opera”; la seconda, che si è tenuta presso la Libreria Feltrinelli di via Manzoni, è stato un colloquio con la giornalista Alessandra Orsi su “storie di amori e di confini”.

Entrambi gli interventi sono stati di grande interesse, sia per chi conosce già la sua opera, sia per chi incontra per la prima volta questa scrittrice israeliana che è anche una oratrice appassionante e vitale. Abbiamo voluto mettere a disposizione dei nostri lettori un testo tratto da queste conversazioni. Le note tra parentesi sono nostre.

Da La presenza della Shoà nella mia opera e Storie di amori e di confini.

di Savyon Liebrecht

Il primo scrittore in Israele che ha raccontato dello sterminio nazista è stato Ka-tzetnik. Il suo vero nome era Yechiel De-Nur (in origine Yechiel Fayner), ma firmò le sue opere con il “nome” che aveva in campo di concentramento, per indicare che scriveva come un qualsiasi sopravvissuto. Ka-tzetnik è stato il primo che ha introdotto il soggetto della Shoà in Israele. Il secondo è stato Aharon Appelfeld. Bambino al tempo della persecuzione nazista, nei suoi libri racconta sia della vita in Europa orientale precedentemente la II Guerra Mondiale, sia dei probemi dei sopravvissuti. Si veda ad esempio il suo libro Mikhvat ha-or (Ustionatura di luce, 1980). A parte questi due scrittori, su questi temi in Israele ci fu il silenzio, almeno fino al processo Eichmann (1961). Per me che ero una bambina, quella fu la prima volta che sentii parlare della Shoà. Ma poi ancora una volta tutto ricadde nell’oblio. Fino alla metà degli anni ’80. Allora ci fu un’esplosione di scrittura su questo argomento, e anche di opere teatrali, e di pittura.

Tenterò di descrivere cosa succede in una casa come la mia, dove i genitori sono entrambi dei sopravvissuti. Mio padre è morto a novant’anni. Mi diceva: ti racconterò. Ma non lo ha mai fatto. Nessuno parlava del passato. Ancora oggi non so niente della famiglia di mio padre, se avesse dei fratelli, delle sorelle, e i loro nomi. Una volta, quando aveva ottantasette anni, chiesi a mio padre di registrare i suoi ricordi. Lui decise di restare in silenzio.

Questo è pertanto ciò che esaminerò: il problema del silenzio nelle case dei sopravvissuti.

Il primo motivo di questo silenzio è l’incapacità di raccontare il passato quando c’è la necessità di costruire il presente. In Israele la gente doveva decidere se investire nella costruzione del presente oppure no, e quindi richiedeva tutte le energie rimaste.

C’è un progetto al Technion di Haifa dove si studiano i sogni. Lì hanno scoperto che i sopravvissuti non hanno sogni. La BBC fece un documentario su questi studi. Per quattro notti alcuni sopravvissuti furono portati in laboratorio e fu mostrato come queste persone soppressero non solo ciò che è conscio, ma persino i sogni.

Il secondo motivo di questo silenzio è molto israeliano. I sopravvissuti, in un certo senso, vennero ignorati. C’era un “nuovo uomo” da costruire, staccato dalle sue radici religiose, che vive nei moshavim e nei kibbutzim e non vuole avere niente a che vedere con gli ebrei europei, gli ebrei della diaspora. Ben Gurion una volta, a proposito dei sopravvissuti alla guerra, parlò di “polvere di esseri umani”. La domanda che circolava era: che cosa hanno fatto questi ebrei per sopravvivere? Era molto diffuso anche il concetto della shlilat hagalut, la “negatività verso l’esilio”, un atteggiamento negativo verso gli ebrei della diaspora. A questo proposito vorrei ricordare che in occasione della presentazione del suo libro Panter ba-martef (Una pantera in cantina, trad. it. Bompiani), ambientato nella Palestina del Mandato Britannico, Amos Oz fece una descrizione della Gerusalemme della sua infanzia: in basso nella scala sociale c’erano i pazzi di Gerusalemme, e più in basso ancora c’erano i lebbrosi di Gerusalemme, e infine, c’erano gli ultimi, i sopravvissuti. Così ho capito qual’era il posto dei miei genitori in questo ordine sociale.

Il terzo motivo è dovuto al rapporto tra i sopravvissuti e i loro figli. Non ho parlato con i miei genitori, ma con altri sopravvissuti. I loro figli erano super-protetti. Ad esempio non li mandavano alle gite scolastiche. Anche il cibo rientrava in questo schema di costante preoccupazione. Il silenzio dei genitori era un modo per proteggere il figlio. E il figlio da parte sua non chiedeva, per non far soffrire i genitori. Per questo il silenzio era così radicato che pensare di infrangerlo era inconcepibile. Tutto questo dava una visione distorta della realtà. Dal lato opposto c’era gente che parlava in modo ossessionante dello sterminio nazista. Mi ricordo di una persona che era trascinata a raccontare da un qualsiasi piccolo particolare, come un pezzo di pane. C’erano poche persone, intelligenti e come per così dire portate alla psicologia, che riuscirono a sfuggire a questa dinamica. Pochi dei miei amici, in questa situazione, sono riusciti a crescere in modo normale.

Il quarto motivo che ha spinto i sopravvissuti a tacere è stato il senso di colpa che ognuno aveva per essere scampato allo sterminio. I sopravvissuti dovevano rimuovere il passato, dopo aver perso tutto, e imparare una nuova lingua, una nuova mentalità. La maggior parte di loro non ricevettero nessun tipo di cura piscologica.

Il quinto motivo è l’incapacità del linguaggio di esprimere un’esperienza che è esterna a quella che è la vita reale della maggior parte delle persone. Spesso io stessa quando scrivo mi rendo conto che devo creare delle nuove parole. Sento che le parole non descrivono bene la situazione: la parola “fame” non rappresenta la stessa “fame” che avevano nei campi. Ma non ho altra lingua.

Oggi in Israele c’è un cambiamento. Come abbiamo già, ricordato le case dei sopravvissuti ai campi di concentramento erano case silenziose. Non si raccontava ai figli quello che era successo. A volte però quello che non si raccontava ai figli si racconta oggi ai nipoti. C’è un programma nelle scuole che si chiama “radici”: i giovani devono andare dai nonni a interrogarli sulla loro vita. Alla fine fanno dei piccoli libri. In questo modo spesso i nonni cominciano a raccontare, perché adesso non è difficile raccontare, e perché le domande vengono poste in modo aperto, spontaneo, cosa questa che non succedeva con i figli, i figli che non dovevano, non potevano chiedere. I nonni raccontano ora anche perché si accorgono che la loro generazione è quasi scomparsa e c’è il pericolo che tutto ciò che non viene raccontato vada perso. Così questo lungo silenzio ha cominciato a rompersi negli ultimi dieci anni, e c’è un dialogo tra la prima e la terza generazione.

Per tornare al tema di questa conversazione, su come cioè la tematica della Shoà si manifesta nella mia opera, mi concentrerò su due racconti.

Il primo racconto è La festa di fidanzamento di Hayuta (trad. it. nella raccolta Mele dal deserto, trad. di C. Guandalini, e/o, Roma 2001, pp. 57-73). Il nonno di Hayuta è un sopravvissuto e ha taciuto per molti anni, ha represso la sua storia. Poi, improvvisamente, quando la famiglia si riunisce per le feste e il shabbat, egli si ritrova a raccontare gli episodi più terrificanti della sua vita. Attraverso queste storie la figlia capisce per la prima volta la propria infanzia, ma la nuora reagisce in modo diverso, non vuole ascoltare, lo accusa di rovinarle l’appetito. In occasione del findanzamento della nipote c’è il timore che il nonno metta in imbarazzo tutti gli invitati con i suoi racconti. Il nonno promette di stare zitto. Durante la festa del fidanzamento la figlia si accorge che il meccanismo che lo costringe a parlare si è già messo in moto e gli grida: papà, no! Il padre crolla allora sul tavolo: quanto non è riuscito a esprimere lo ha ucciso.

Il secondo racconto di cui desidero parlarvi è quello che in italiano è stato pubblicato con il titolo Una mattina ai giardini con le bambinaie (nella raccolta Mele dal deserto, pp. 87-101). L’ho scritta perché ho cominciato parlando dei figli dei sopravvissuti e di storia in storia ho voluto cambiare continuamente il punto di vista, inseguendo l’illusione che girando intorno a questo nucleo spaventoso alla fine sarei riuscita a capire. Ma ora so che anche limitandomi a girarvi intorno, non finirò mai di raccontare. Ka-tzetnik fu curato in Olanda da uno psichiatra. Ka-tzetnik aveva la tipica sindrome dei sopravvissuti e non riusciva a liberarsi dell’incubo che aveva vissuto. Fu curato con l’LSD (il racconto di Ka-tzetnik di questa esperienza esiste anche in traduzione italiana: Ka-tzetnik 135633, Shiviti. Una visione, Sensibili alle foglie, 1997). E io ho pensato che forse riuscirò a liberarmi di quest’incubo tramite il racconto. Così ho fatto con la storia che segue. Un giorno tra le bambinaie che portano i bambini ai giardini compare una donna che non si era mai vista prima. La voce narrante riconosce in lei una delle donne del bordello per nazisti per le quali aveva lavorato come sarta verso la fine della guerra. Io ne avevo conosciuta una, che non si sposò mai e non ebbe figli, e poco tempo dopo si suicidò. Ecco, quando io racconto non faccio differenza tra uomini e donne, ma in questo bordello le donne venivano trattate come donne.

Il terzo racconto si intitola La bambina delle fragole (in Mele dal deserto, pp. 113-149). È un titolo dolce per un racconto terribile. Mi ci vollero due anni per sviluppare questa storia e altri due anni per scriverla. Ho cominciato a pensarci mentre leggevo le memorie di Rudolf Hess, dove ho scoperto con sorpresa che sua moglie viveva con lui in un’area vicina al campo e diede alla luce due figli. Non riuscivo a capire come si potesse essere marito e padre e poi attraversare il cancello ed essere il comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Ho cominciato allora a leggere molto materiale su questi quartieri che si trovavano all’esterno dei campi, dove vivevano i tedeschi con le loro famiglie. A Dachau avevano una magnifica piscina, e giardini con dei fiori e giardinieri che se ne prendevano cura. Si celebravano feste, i bambini andavano in bicicletta, studiavano musica … Una volta, nel 1988, feci un viaggio in Germania insieme ad altri scrittori israeliani, per incontrare degli scrittori tedeschi. All’inizio l’incontro fu molto noioso, perché tutti temevamo di dire qualcosa di sbagliato. Ma in seguito vennero organizzati degli incontri per gruppi più piccoli. Ricordo in particolare una scrittrice, anch’essa cresciuta in una casa dove regnava il silenzio. Raccontò che durante la fine della guerra sua zia era incinta, e quando un soldato russo entrò in casa sua e cominciò a urlare, lei si chiuse a chiave in una camera e per lo spavento abortì. Io rimasi sconvolta da questa confessione: per me i soldati russi erano quelli che ci avevano liberati dai campi di concentramento, ed ecco che qui si comportavano come dei soldati tedeschi.

Così è nata questa storia, narrata in prima persona da una donna tedesca, la storia del suo incontro con una bambina ebrea che porta delle fragole grosse come il pugno d’un uomo e rossissime, cresciute in un terreno pieno di ceneri umane. E questa bambina di dieci anni sopravvive attraversando il cancello del campo e portando queste fragole alle famiglie tedesche. So benissimo che una bambina di dieci anni non aveva la possibilità di sopravvivere in un campo di sterminio, ma cercavo un modo per descrivere la vita di questi tedeschi, di cercare di capire quanto sapevano, quanto di umano avevano. L’editor di questo racconto, Zeruya Shalev, mi persuase a pubblicarlo anche se io avevo dei forti dubbi in proposito. In seguito dei sopravvissuti mi chiamarono per rimproverarmi di averlo pubblicato. Il campo appariva come una sorta di Disneyland rispetto alla realtà. Io mi sentii molto male e mi pentii di averlo scritto. Prima che venisse pubblicato in un volume, il racconto apparve su un giornale e un’attrice ne fece una pièce che veniva messa in scena anche a Yad vaShem (il Memoriale dell’Olocausto, a Gerusalemme). Una volta mi telefonò una sopravvissuta per dirmi che avrebbero raccolto delle firme perché questa pièce non fosse più rappresentata. Avevo la sensazione di avere fatto un grosso sbaglio. Ma poi ho ricevuto un’altra telefonata. Una donna di nome Ester Hurvitz, che vive in un kibbutz, mi disse: sono io la ragazza delle fragole. A Maidanek.

La sua storia naturalmente non era esattamente la stessa, ma è straordinariamente simile. E io ero felice di avere il suo numero di telefono. Ma più di tutto questo episodio mi fece capire che cosa significava davvero scrivere dell’olocausto. È al di là dell’immaginazione. Non importa quanto lontano si vada con l’immaginazione: l’olocausto ha varcato tutti i limiti.

Se rifletto sulla mia scrittura, sul perché ho deciso di scrivere ciò che scrivo, mi ritrovo a pensare che non si tratta di una scelta. È il soggetto che sceglie me e non viceversa. Anche contro la mia volontà, lui mi insegue. Io non ho “scelta”. E non si sceglie neanche il modo di raccontare. Quando scrivo, c’è come una forza dentro di me, qualcosa che non è conscio, e io stessa a volte ne sono sorpresa. Il modo in cui lavoro è probabilmente diverso da quello degli altri. Ogni storia inizia con un personaggio, qualcuno che non conosco, qualcuno che a volte è molto comunicativo e in poco tempo diventiamo amici, ma che altre volte è timido, sta in un angolo, e nel dialogo è molto lento, e a volte riesco ad afferrare solo i suoi sogni. E così quando colgo il carattere del personaggio, comincio a scrivere. Allora ho come una sorta di feeling di dove sto andando, ma è solo una sensazione. Una storia mentre viene scritta sta accadendo, come è la vita, e così scrivo senza sapere quello che seguirà. Non ho in mano tutto l’intreccio.

Un esempio può essere il racconto che dà il titolo alla raccolta Mele dal deserto. È una storia che è stata introdotta nei programmi didattici nelle scuole in Israele. Narra di una donna “ultra-ortodossa” che ha una figlia che è andata a vivere in un kibbutz e vive con un uomo senza essere sposata. Questa donna percorre tutto il tragitto da Gerusalemme al kibbutz ed è convinta che riporterà indietro sua figlia “per i capelli”. Poi capisce che la figlia è nel posto giusto ed è felice dov’è. Ho letto a questo proposito un articolo scritto per gli insegnanti, che diceva che questo è un racconto su qualcosa che va aggiustato – la madre alla fine capisce qualcosa sulla figlia, e anche su se stessa -, e infatti comincia con una mela marcia e si conclude con un sacco di mele buone: le mele ricevute dal fidanzato della figlia.

Io non riuscivo a ricordare la mela marcia. E poi mi sono resa conto che era vero: la madre nel viaggio da Gerusalemme portava con sé una mela con un buco, una mela marcia, ma io non me ne ricordavo. È una prova che non era pianificato. Non è una storia su come si può aggiustare qualcosa. Il fatto che inizi e finisca con una mela, significa che c’è una formula inconscia.

Il mio prossimo libro che uscirà in italiano ha dei racconti il cui comune denominatore è la presenza di un protagonista straniero, non israeliano. In Israele ci sono oggi molti lavoratori che vengono dall’Africa, dalle Filippine, dalla Polonia. Queste tre storie raccontano la vita in Israele da diversi punti di vista. In una c’è una donna filippina che si occupa di un uomo anziano ed entra nel tessuto delicato della vita familiare. Nel secondo racconto c’è una volontaria irlandese che è incinta di un giovane soldato morto. Lei non vuole abortire e aspetta solo di partire e di tornare in Irlanda, ma i genitori del ragazzo la accolgono in casa. Soffrono per la morte del figlio, e lei rappresenta un problema per loro, perché è come se il loro figlio tornasse alla vita tramite lei. L’ultimo racconto affronta un fatto curioso: ci sono oggi dei polacchi che lavorano in Israele e spesso lavorano in case di riposo dove si trovano dei vecchi ebrei di origine polacca e che ancora parlano polacco. Ironia della storia: un giovane i cui genitori hanno forse ucciso degli ebrei è ora costretto ad emigrare e a lavorare per questi vecchi ebrei sopravvissuti.

L’attualità è sempre presente nella mia opera. A parte il problema dei lavoratori stranieri, mi è stato chiesto se ho un’interpretazione per il racconto Una stanza sul tetto (in Mele dal deserto, pp. 7-42). Non credo di averne una, ma in generale esprime un tipo di disperazione per l’impossibilità di stare davvero insieme, israeliani e palestinesi. Il racconto è ambientato venti anni fa, ma sotto questo punto di vista non è cambiato molto. È l’unica storia devvero vicina alla mia biografia, è per lo più basata su un’esperienza personale. Era il 1982, l’anno della guerra “per la pace nel Libano” – un nome curioso -. Ho dato lavoro a tre palestinesi e tra noi si è instaurato un rapporto strano. Nel momento in cui hanno capito che ero da sola in casa con i miei figli, gradatamente hanno preso possesso della casa. Una volta si mise a piovere e io li invitai ad entrare. Uno di loro accese la televisione, si mise a guardare un programma di aerobica, e cominciarono a mangiare e il permesso concesso una volta era concesso per sempre, così per il telefono, o il bagno, e io avevo la sensazione chiara che stavo perdendo il controllo della mia casa. Ma durante quel periodo furono gentili. C’era sempre una tazza di caffé per me, e dolci per i bambini. Era un gioco complicato. Non potevo cacciarli via. Per me era la prima volta che incontravo davvero dei palestinesi. La complicazione di questa situazione all’interno della casa riecheggia la situazione all’esterno. Io ho sempre un senso di colpa, in quanto rappresentante degli israeliani, verso i palestinesi, e adesso è tutto ancora più complicato. Penso che questa storia sia riuscita a cogliere qualcosa di personale, che al tempo stesso corrisponde a quello che accade fuori a livello sociale.