Se i garanti non garantiscono nulla

Ancora una volta Israele deve tutelare da sé i propri vitali interessi strategici.

Alcuni commenti dalla stampa israeliana

image_3607Scrive Dan Margalit, su Yisrael Hayom: «Non è che Israele non abbia le sue ragioni. Ne ha eccome. Dopotutto i governi occidentali si erano fatti garanti degli Accordi di Oslo con cui israeliani e palestinesi si erano impegnati ad evitare azioni unilaterali, mentre questo è esattamente quello che ha fatto il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) con la sua manovra diplomatica all’Onu quando ha chiesto che la Palestina venisse riconosciuta come stato osservatore non-membro. Dove sono dunque le garanzie europee, se i paesi europei hanno appoggiato la mossa dell’Autorità Palestinese o, nel migliore dei casi, si sono astenuti (ad eccezione della Repubblica Ceca che ha votato contro)? Sin dai tempi del vertice di Camp David del 2000, Abu Mazen si è sistematicamente sottratto ai negoziati. La giustizia dunque è dalla parte di Israele. Ma che dire di un po’ più di arguzia? A sentire diplomatici di professione del ministero egli esteri di Gerusalemme, fra i governi amici Israele avrebbe potuto giocare a proprio vantaggio sul piano diplomatico l’iniziativa di Abu Mazen, e invece lo sconcerto inizialmente suscitato dalla mossa del presidente palestinese è stato rimpiazzato dalla collera verso Israele. Il governo israeliano avrebbe dovuto muoversi con estrema cautela sul terreno delle costruzioni [nell’area E1 fra Gerusalemme e Ma’aleh Adumin] che viene vista come la cartina di tornasole della sua disponibilità a negoziare la soluzione a due stati, quando arriverà il giorno di farlo». L’editorialista conclude dicendo di dubitare che il governo israeliano sia in grado di tornare sulla decisione, soprattutto perché si guarda le spalle, anzi “la spalla destra”, in vista delle elezioni del prossimo 22 gennaio.
(Da: Yisrael HaYom, 4.12.12)

Scrive Hanoch Daum, su Yediot Aharonot: «Supereremo anche questa mini-crisi perché le alternative sarebbero molto più pericolose. C’è qualcosa che gli europei hanno deciso di dimenticare: che i palestinesi sono ripudiatori seriali della pace negoziata». L’editorialista ricorda in particolare il rifiuto nel 2008 delle proposte dell’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert, nonché il fatto che i palestinesi hanno risposto col terrorismo al completo ritiro di Israele dalla striscia di Gaza. E prosegue: «Accusare Israele di non volersi impegnare per una soluzione diplomatica è falso e ottuso, dal momento che ogni volta che l’abbiamo fatto siamo stati respinti. D’altra parte, non reagire alla mossa unilaterale di Abu Mazen, che costituisce una flagrante violazione degli accordi sottoscritti, avrebbe creato un pericoloso precedente. Oggi in Israele esiste un vasto consenso attorno ai principali blocchi di insediamenti. Non vi è praticamente nessun israeliano che non sia convinto che tali blocchi resteranno sotto sovranità israeliana [eventualmente in cambio di equivalenti porzioni di territorio all’interno della Linea Verde] quando avverrà il miracolo di un accordo di pace definitivo (e concordato). La decisione di costruire case all’interno di questi blocchi di insediamenti è innanzitutto un diritto di Israele, e solo in seconda battuta una reazione alla mossa palestinese».
(Da: Yediot Aharonot, 4.12.12)

Scrive il Jerusalem Post: «Nell’ottobre 1994, nel bel mezzo delle trattative per gli Accordi di Oslo, l’allora primo ministro israeliano Yitzhak Rabin dichiarò che una “Gerusalemme unita” avrebbe incluso anche Ma’aleh Adumim come parte della capitale di Israele sotto sovranità israeliana. Proprio per garantire che Ma’aleh Adumim restasse parte integrante di “Gerusalemme unita”, Rabin fornì al sindaco di allora Benny Kashriel i documenti per l’annessione dell’area E1, la striscia di terra che connette Ma’aleh Adumim a Gerusalemme. Nel 1996 Shimon Peres, allora primo ministro, ribadì la posizione del governo circa la sovranità israeliana su Ma’aleh Adumim in un futuro accordo di pace definitivo. Anche la colomba Yossi Beilin, co-autore dell’iniziativa di pace israelo-palestinese di Ginevra, sostenne l’annessione di Ma’aleh Adumim. E nel 2000, i parametri di Bill Clinton prevedevano che Israele venisse risarcito per la divisione di Gerusalemme con l’annessione di Ma’aleh Adumim. Nel 2008, durante i negoziati di Annapolis, Ehud Olmert e Tzipi Livni chiesero che Ma’aleh Adumim restasse parte di Israele. La dichiarazione di sabato scorso dell’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu è in coerente continuazione con la politica dei diversi governi israeliani, che hanno sempre considerato il controllo dell’area E1 un cruciale interesse strategico di Israele. Nonostante tutto quel che si dice e si scrive, non è vero che costruire nell’area E1 comprometterebbe per forza la continuità territoriale del futuro stato palestinese. Una strada di accesso potrebbe facilmente permettere al traffico palestinese di muoversi fra nord e sud passando poco a est di Ma’aleh Adumin (esattamente come gli israeliani, per recarsi dalla Galilea o dal Negev a Gerusalemme, una volta nato lo stato palestinese, dovranno aggirare quasi completamente la Cisgiordania come facevano prima del 1967, percorrendo un itinerario decisamente più lungo della prospettata strada a est di Ma’aleh Adumim). Anche se la tempistica dell’annuncio del governo israeliano causerà ripercussioni diplomatiche negative, costruire a Gerusalemme e nell’area E1 risponde a interessi vitali di Israele riconosciuti e tutelati dai suoi governi sia di destra che di sinistra».
(Da: Jerusalem Post, 3.12.12)

Scrive Boaz Raskin, su Times of Israel: «Proviamo a rimettere nel suo giusto contesto il recente trambusto suscitato dai piani israeliani sulle costruzioni nella zona di Gerusalemme. I palestinesi, sostenuti dalla maggioranza automatica di cui godono alle Nazioni Unite e da alcuni ex-imperi, invecchiati ma ancora sgradevolmente chiassosi, hanno deciso di aggirare i negoziati con Israele allo scopo di ottenere con un diktat delle Nazioni Unite ciò che non avrebbero mai potuto ottenere al tavolo delle trattative. Facendolo, hanno di fatto gettato nel cestino il quadro stabilito più di vent’anni fa in base al quale le due parti avevano convenuto di risolvere le loro divergenze attraverso negoziati pacifici e diretti. L’hanno fatto favorendo o semplicemente facendosi da parte quando i palestinesi hanno preso iniziative che contraddicono esplicitamente gli accordi firmati fra loro e Israele, con Stati Uniti e Unione Europea come testimoni. La conclusione ovvia e semplice di questa istruttiva esperienza è che la firma di un leader palestinese, americano o europeo su un pezzo di carta non vale nulla nel medio-lungo periodo, e qualunque accordo può essere pubblicamente ed esplicitamente infranto dalla parte palestinese nel momento in cui lo ritiene più conveniente, mentre i garanti di quell’accordo non fanno nulla o addirittura si felicitano. La mossa palestinese all’Onu apre una nuova fase nella guerra diplomatica contro Israele. La strategia consiste nel tentativo di indurre la comunità internazionale, guidata dalla maggioranza automatica di cui godono i palestinesi all’Onu, a imporre una soluzione che riconosca ai palestinesi ciò che chiedono, calpestando gli interessi israeliani. Israele avrebbe anche potuto ignorare la manovra se i palestinesi fossero stati costretti dall’Unione Europea o dagli Stati Uniti a pagare un prezzo, per dissuaderli dall’intraprendere in futuro altre iniziative sulla stessa linea in violazione degli accordi firmati. Ma non è accaduto nulla del genere. Anzi, sono stati largamente incoraggiati. Il che mina la fiducia di Israele nei negoziati come quadro cui affidarsi per garantire che gli interessi israeliani vengano tutelati in una futura soluzione del conflitto. Anzi, date queste circostanze, c’è da aspettarsi che gli interessi israeliani non vengano nemmeno presi in considerazione da questi organismi internazionali. Di più. Il comportamento di europei e americani compromette persino il loro ruolo come garanti di qualunque futuro accordo, incoraggiando arabi e palestinesi nella loro intransigenza. Il che ha lasciato Israele con ben poche alternative. Su Gerusalemme, l’attuale linea della dirigenza palestinese è quella di rivendicarne la parte est come capitale, senza tenere in alcun conto gli interessi storici e di sicurezza di Israele. I paesi che dovrebbero garantire gli interessi di Israele in un futuro accordo hanno ripetutamente dimostrato che, quando le cose vengono al dunque, non possono o non vogliono onorare i loro impegni. Il che significa che, se i palestinesi otterranno quel che chiedono a Gerusalemme, presto o tardi gli israeliani si ritroveranno con mezza città usata come base di partenza per attacchi (palestinesi o di altri) contro gli ebrei nei quartieri ebraici. E naturalmente nessuno muoverà un dito. Israele dovrà erigere altri muri e torri di guardia, orrendi da vedere, che renderanno la vita difficile a tutti e che si attireranno immediatamente l’unanime condanna internazionale. Dubito che qualunque governo israeliano possa accettare questo scenario, che è esattamente quello verso cui spingono la dirigenza palestinese e le pressioni internazionali».
(Da: Times of Israel,4.12.12)