Se Obama impedisce l’unica soluzione pragmatica di pace

Il presidente Usa è intrappolato in una visione delle cose ormai obsoleta.

Di Gidi Grinstein

image_3147Il presidente Barack Obama proprio non ce la fa. Ci prova e ci riprova, ma sbaglia. Vorrebbe benedire il processo di pace e finisce per dannarlo. Un altro capitolo di questa infelice vicenda è stato scritto l’altra settimana quando Obama, ancora una volta, ha convogliato le parti nel vicolo cieco di un accordo per lo status definitivo, intralciando al contempo la strada verso la creazione di uno stato palestinese: unica chance di reale progresso diplomatico fra Israele e palestinesi.
Le sue intenzioni erano buone: ancorare il principio dei due stati per due popoli, che sembrerebbe accettabile per entrambe le leadership, israeliana e palestinese. Obama ha spartito la sua buona volontà: ha dato ai palestinesi le linee del 1967 e agli israeliani il riconoscimento dell’ebraicità di Israele. Ha fatto appello a entrambe le parti perché riprendano i negoziati per l’accordo sullo status definitivo, mentre dichiarava la sua contrarietà alla dichiarazione di uno stato palestinese alle Nazioni Unite il prossimo settembre.
Ma c’è un ma. Sin dalla vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi del gennaio 2006, non c’è più né può esservi un interlocutore palestinese per un siffatto processo diplomatico. Da una parte, infatti, un fronte palestinese che includesse Hamas, che si rifiuta di riconoscere Israele e gli accordi già esistenti, non può essere un interlocutore nei negoziati sullo status definitivo. Dall’altra, senza Hamas il sistema palestinese manca di legittimità interna, il che impedisce di fare le necessarie concessioni storiche. Questo è il motivo per cui tutti gli appelli da Washington, da Bruxelles e da Gerusalemme per una ripresa delle trattative fra Israele e palestinesi cadono nel vuoto, ed il motivo per cui i negoziati condotti nel quadro del processo di Annapolis (novembre 2007) erano condannati all’insuccesso sin dall’inizio.
C’è una sola formula che ha qualche probabilità di far fare progressi verso una situazione permanete basata sul principio due popoli-due stati: quella di fare passi unilaterali coordinati, basati su tacite intese e tacita cooperazione. È così che sono state create le istituzioni dell’Autorità Palestinese negli anni scorsi, garantendo sicurezza e crescita economica in Cisgiordania. E nonostante questi significativi progressi, la gamma delle possibili intese e cooperazioni fra Israele, Autorità Palestinese in Cisgiordania e Stati Uniti e tutt’altro che esaurita. La stessa imminente dichiarazione d’indipendenza di uno stato palestinese, a settembre alle Nazioni Unite, andrebbe vista in questo contesto.
Ma Obama è intrappolato in una visione delle cose ormai obsoleta. È convinto che Israele e palestinesi debbano e possano arrivare a un accordo sullo status definitivo capace di risolvere in un colpo tutte le questioni chiave del contenzioso, di istituire uno stato palestinese e di porre fine al conflitto. Per questo cerca ripetutamente di creare le condizioni che riportino le due parti al tavolo del negoziato per poi arrivare all’ineluttabile e agognato accordo sullo status definitivo. Come un atleta in un match combinato che continua a migliorare le sue prestazioni senza rendersi conto che il risultato è già noto in partenza, Obama continua a dilapidare risorse diplomatiche: congelamento delle costruzioni negli insediamenti, gesti sauditi, linee del 1967.
Ed è questo il motivo per cui Obama perde, invece, l’opportunità che ha sotto il naso: la dichiarazione di uno stato palestinese a settembre porta con sé la possibilità di una svolta diplomatica, nonché significativi vantaggi per Israele. L’istituzione di un tale stato contribuirebbe a fissare il principio due stati per due popoli dando forma a una situazione permanente in cui Israele mantiene il controllo sugli asset fondamentali della sua sicurezza e sui dintorni del nuovo stato, e ridurrebbe il problema dei “profughi” emarginando l’Unrwa e ponendo limiti allo status di “profugo” riconosciuto.
Nonostante i bei discorsi di Obama, il processo diplomatico resterà a un punto morto mentre si avvicina a grandi passi il momento decisivo di settembre. A quel punto gli Stati Uniti avranno un’altra opportunità di fare la cosa giusta: garantire che l’istituzione di uno stato palestinese sia conforme alle vitali esigenze di Israele.

(Da: Ha’aretz, 31.5.11)

Nella foto in alto: l’autore di questo articolo, Gidi Grinstein, fondatore e presidente del Reut Institute