Se un accordo con Israele è visto come una resa

Ecco perché 'orizzonte politico ed 'equivicinanza' non favoriscono la pace

Da un articolo di Saul Singer

image_1604Non deve essere facile stare nei panni di Condoleezza Rice. È assai poco invidiabile essere l’ennesimo inviato incaricato di andare a sbattere la testa contro un muro chiamato “processo di pace in Medio Oriente”. Ad ogni viaggio nella regione, deve sbandierare qualche inezia – l’ultima volta il fatto in sé che si sia tenuto un meeting fra il primo ministro israeliano Ehud Olmert e il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) – definendola un progresso.
Viene da domandarsi se la Rice, e gli altri importanti diplomatici che si sono dedicati con la massima serietà a questo ingrato compito, abbiano mai considerato la possibilità che fossero sulla strada sbagliata. Non per quanto riguarda l’obiettivo della pace, e nemmeno la soluzione “due stati-due popoli”, ma per quanto riguarda il sottostante paradigma sul quale si fondano tutti questi sforzi diplomatici.
Condoleezza Rice agisce sulla base di un assunto molto chiaro. I palestinesi non abbracciano la pace perché non credono che la pace sia possibile, o che sia abbastanza allettante. Dunque l’obiettivo dell’occidente deve essere quello di dipingere con colori sempre più vividi il famoso “orizzonte politico” che dovrebbe essere negli auspici dei palestinesi.
Dal punto di vista della Rice la situazione deve presentarsi in termini abbastanza assurdi. Probabilmente si domanda: ma non capiscono i palestinesi che se solo la smettessero di “lottare” otterrebbero quello stato per cui lottano? E forse si domanda: come mai gli israeliani non vedono che, se solo mettessero sul tavolo le loro carte, troverebbero i palestinesi esausti e pronti per fare l’accordo? L’assunto di fondo è che entrambe le parti vogliano la stessa cosa, ma che siano bloccati dal bagaglio storico per fidarsi delle risposte positive della controparte.
Ma se questo assunto fosse sbagliato? L’ipotesi predominante si basa, senza rendersene conto, su un fraintendimento della parte araba. Per quanto possa esserci difficile capirlo dobbiamo accettare il fatto che, nella percezione araba, la pace con Israele – lungi dal rappresentare un successo – rappresenta tuttora capitolazione, umiliazione, sconfitta.
Sin dalla guerra del 1967, terminata con la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza che stabiliva il paradigma “pace in cambio di terra” quale formula per risolvere il conflitto, l’occidente ha dato per scontato che il mondo arabo sia di fatto favorevole a un accordo di questo genere. Si tende a dimenticare che nel 1967 tutti gli stati arabi si apprestavano a invadere e distruggere Israele che, a quel tempo, non controllava un solo centimetro di Cisgiordania, e neanche Gerusalemme est. La risoluzione 242 in sostanza diceva agli arabi: “Volevate distruggere Israele, avete perso, dunque ora fate la pace e ringraziate il cielo che vi riprendete le terre che avete appena perduto”. Ma gli arabi, benché sconfitti e indeboliti, risposero di no.
Oggi Israele è militarmente ed economicamente assai più forte che nel 1967. Anche sul piano diplomatico, praticamente tutti i paesi che avevano rotto le relazioni con Israele durante il ricatto petrolifero arabo del 1973, le hanno ristabilite. La risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu “sionismo uguale razzismo” del 1975 è stata cancellata nel 1991. In queste condizioni non è illogico che l’occidente continui a tentare, nella speranza che il mondo arabo sia disposto ad abbandonare il suo secolare rifiuto di accettare in Medio Oriente un qualunque stato degli ebrei per quanto piccolo. Ciò che non è logico è dimenticare che la pace israelo-araba, che appare agli occhi dell’occidente come un luminoso traguardo, invece per gran parte del mondo arabo rimane motivo di lotto e vergogna. Un sondaggio condotto pochi mesi fa in Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Libano, Marocco ed Emirati Arabi Uniti – tutti considerati paesi arabi “moderati” – ha rilevato che i leader più ammirati da quelle popolazioni sono, nell’ordine, il capo di Hezbollah Hassan Nasrallah, il presidente francese Jacques Chirac e quello iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Nel 2004, quando alla gente di quegli stessi paesi venne chiesto perché gli Stati Uniti avessero invaso l’Iraq, le risposte furono se possibile ancora più rivelatrici: per “impadronirsi del petrolio” e per “proteggere Israele” furono quelle citate dalla grande maggioranza, mentre percentuali di poco inferiori optarono per la “volontà di dominare la regione” e di “indebolire il mondo islamico”.
Agli occhi dell’occidente la pace è così evidentemente auspicabile che l’idea che possa essere vista negativamente non viene quasi nemmeno presa in considerazione. Ma si cerchi, per un momento, di vedere le cose dal punto di vista arabo. La pace rappresenterebbe la ratifica definitiva dell’esistenza di Israele. Viene vissuta come una vile resa di fronte al tentativo dell’occidente di dominare gli arabi.
Nell’ottobre 1995, quando era primo ministro Yitzhak Rabin e il processo di Oslo era al culmine, Nizar Qabbani, il più popolare poeta del mondo arabo, pianse gli accordi con queste parole: “Nelle nostre mani hanno lasciato / una sardina chiamata Gaza / e un osso secco chiamato Gerico / … Ci hanno dato una patria più piccola di un chicco di grano / una patria da ingoiare senz’acqua come pastiglie di aspirina…”.
Oggi i leader di Hamas dicono apertamente che i loro sogno di distruggere Israele è più vicino a realizzarsi di quanto sia mai stato dopo il 1967. Vedono questa battaglia non solo e non tanto come una questione di forza militare, ma innanzitutto come uno scontro sulla legittimità. E se di questi tempi tutt’a un tratto diventa sempre più legittimo parlare di un mondo senza Israele, perché mai gli arabi dovrebbero gettare la spugna proprio in questo periodo?
In questo quadro, quell’“orizzonte politico” che secondo noi dovrebbe allettare gli arabi, in realtà ottiene l’effetto opposto. Da quando in qua abbellire la sconfitta la rende più allettante?
Purtroppo non c’è una ricetta per cambiare il fatto che, per il grosso dell’opinione pubblica araba, la pace con Israele equivale a una capitolazione. Tutto ciò che si può fare è spostare la percezione dell’inevitabile: da un mondo dove sembra che Israele possa essere cancellato, a un mondo dove Israele cresce non solo in forza ma anche in legittimità.
Può sembrare paradossale, ma i tanti “amici” dei palestinesi che pensano di promuovere la pace diffamando Israele in realtà fanno esattamente il contrario. Lo stesso vale per i governi occidentali che presumono che la pace sia favorita dalla “evenhandedness” [imparzialità, o vogliamo dire equivicinanza?]. La politica in assoluto più favorevole alla pace è quella che più di ogni altra sia in grado di convincere gli arabi della inevitabile permanenza di Israele. Persino gli Stati Uniti si allontanano da questa politica quando non respingono automaticamente i trucchi oggi invocati per far rientrare dalla finestra la distruzione di Israele, come la pretesa del cosiddetto “diritto al ritorno” dei palestinesi in Israele.
Quando si parla di “orizzonte politico”, il problema non è che gli arabi non riuscirebbero a intravedere un futuro stato palestinese. Il loro problema è che continuano a vedere anche uno stato ebraico. Il mondo arabo accetterà uno stato palestinese solo quando si convincerà che Israele è destinato a restare.

(Da: Jerusalem Post, 22.02.07)

Nella foto in alto: Il passaporto simbolico dello “Stato di Palestina” rilasciato dall’associazione palestinese per il “diritto al ritorno” Al-Awda (Israele è cancellato). Chi lo acquista – dice il sito di Al-Awda (http://www.al-awdany.org/passport/index.html ) – sottoscrive un “giuramento” in cui si afferma che “il Libero Stato di Palestina corrisponde alla terra che si estende dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, da Naqura ad Aqaba, e che appartiene al popolo palestinese”, e si afferma che “tutti i palestinesi hanno il diritto di tornare alla loro terra”.