Se vengono precluse le vie democratiche

L’attentato al prof Sternhell chiama in causa la democrazia israeliana /2

Da un articolo di Evelyn Gordon

image_2269Si è registrata negli ultimi tempi un’ondata di attacchi da parte di coloni ai danni sia di palestinesi che di soldati israeliani. Non si tratta di violenze casuali, ma di una politica calcolata. L’obiettivo, dicono gli attivisti, è quello di “far pagare un prezzo” ogni volta che viene smantellato un avamposto o una parte di un insediamento, con l’idea di persuadere le autorità che i vantaggi dello smantellamento degli insediamenti non valgono gli svantaggi. Benché solo una minoranza dei coloni sostenga questa tattica, il numero è in crescita e gli addetti alla sicurezza ritengono che le violenze non potranno che aumentare.
Si tratta di un fenomeno che nessuna società può tollerare e la necessaria risposta deve chiaramente comprendere un’azione più severa per far rispettare la legge.
Ciò nondimeno l’applicazione della legge da sola non basta per risolvere il problema sottostante: che è dato dal fatto che un crescente numero di coloni è giunto alla conclusione che l’azione per via democratica è inutile, il che apre la strada alla violenza come unica opzione logica. Sembra scandaloso? Certo che lo è. Ma si considerino i fatti seguenti.
Nel 1993 la Knesset approvò gli Accordi di Oslo sebbene Yitzhak Rabin avesse vinto le elezioni, l’anno prima, promettendo che non vi sarebbero stati negoziati con l’Olp. La successiva impennata di attentati terroristici disilluse molti sostenitori di Oslo, per cui la destra intravide una concreta possibilità di sconfiggere nel 1995 gli Accordo Olso Due. Così la destra fece esattamente ciò che ci si aspetta da ogni buon democratico: fece opera di convincimento sui parlamentari laburisti e dello Shas e riuscì a guadagnare abbastanza voti per vincere. Finché Rabin, facendosi beffe delle regole, comprò apertamente il voto di due parlamentari eletti in una lista di estrema destra assicurandosi in questo modo una maggioranza di 61 a 59. E giacché l’offerta di contropartite (un posto di ministro e di vice ministero, con tutti i relativi benefici finanziari) era allora vietato dalla legge, usò la sua maggioranza appena comprata per emendare la legge e poter così saldare il debito.
Quel che è peggio, questo pervertimento del meccanismo democratico godette del sostegno monolitico di giornalisti, parlamentari di sinistra, accademici e altri autoproclamati campioni dello stato di diritto. La lezione era ovvia: stare alle regole del gioco democratico non serve perché l’altra parte non si fa scrupolo di scavalcarle quando le conviene. Non è un caso se il peggiore incidente di violenza politica della storia di Israele, l’assassinio di Rabin, sia avvenuto giusto un mese dopo. Se le alternative democratiche vengono precluse, la violenza diventa la sola risorsa. E qualcuno inevitabilmente vi fa ricorso.
Facciamo un salto in avanti alle elezioni del 2003, quando i laburisti si battevano per il ritiro unilaterale dalla striscia di Gaza mentre Ariel Sharon, del Likud, faceva campagna contro questa idea. Di nuovo la destra fece ciò che ogni buon democratico deve fare: votò in massa per Sharon ed ebbe successo: il Likud ottenne una vittoria schiacciante. Undici mesi più tardi Sharon fece dietro-front e adottò l’idea dei laburisti. Tuttavia offrì una scappatoia democratica: un referendum interno nel Likud. Così la destra, ancora una volta, fece ciò che ci si aspetta da un buon democratico: andò a raccogliere i voti porta a porta fra i membri del partito, e ancora una volta ebbe successo: benché i sondaggi prevedessero una facile vittoria per Sharon, il suo piano fu sconfitto 40 contro 60%. Ma Sharon ignorò il verdetto del suo partito, nonostante di fosse impegnato ad onorarlo. E si rifiutò anche di sottoporre il suo piano a un più ampio test democratico, con nuove elezioni generali o con un referendum nazionale. E naturalmente queste sue scelte furono applaudite dagli autoproclamati campioni di democrazia di tutta la sinistra.
Dunque la destra, che aveva ottenuto due vittorie democratiche, nelle elezioni del 2003 e nel referendum del Likud, dovette prendere atto che entrambe risultavano del tutto prive di valore. Quando Sharon gettò nel cestino i risultati del referendum, gli attivisti di destra protestarono inscenando blocchi stradali un po’ in tutto il paese: cosa che, benché illegale, costituisce una pratica ben consolidata nella tradizione di molte democrazie, compresa quella israeliana. Il sindacato Histadrut, ad esempio, organizzò blocchi stradali per protestare contro il programma di emergenza economia del 2003; associazioni dei disabili che chiedevano un aumento dei fondi paralizzarono la capitale bloccando tutte le strade principali. Ma né i sindacalisti né gli attivisti disabili vennero arrestati. Viceversa gli attivisti anti-disimpegno da Gaza furono arrestati in quantità e trascorsero lunghi periodi agli arresti. Anche qui la lezione era chiara: gli attivisti di destra sarebbero stati arrestati per aver fatto ricorso a tattiche che altri potevano usare impunemente. In breve, la democrazia non è un campo neutro e alle sue regole è del tutto inutile.
La sinistra spesso ribatte che, quand’anche venissero rigorosamente rispettate tutte le regole del processo democratico, i coloni non ne accetterebbero comunque il risultato. Sarà forse vero per una minuscola minoranza, ma certamente non lo è per la grande maggioranza, come si è visto durante la premiership di Ehud Barak. Barak vinse le elezioni nel 1999 promettendo un ritiro unilaterale dal Libano e negoziati con i palestinesi sulla soluzione definitiva. E puntualmente si è ritirato dal Libano nel maggio 2000 e ha offerto ampie concessioni ai palestinesi a Camp David. Aveva una chiaro mandato democratico sia per il ritiro sia per i negoziati. Inoltre la Knesset, per una volta, assolse il suo compito democratico in modo appropriato: obbligandolo a indire elezioni anticipate, permise all’elettorato di approvare o respingere le specifiche concessioni avanzate a Camp David e successivamente a Washington e a Taba. E, miracolo dei miracoli, non ci fu praticamente nessuna opposizione violenta, sebbene la destra fosse totalmente contraria sia a quel ritiro che a quei negoziati. Messi di fronte a un autentico mandato democratico e ad un autentico processo di ratifica, i coloni hanno rispettato le regole del gioco democratico. Purtroppo la premiership di Barak costituì in questo senso un’eccezione. Si poteva pensare che lo stravolgimento delle regole durante il mandato di Rabin rimanesse un caso isolato, ma Sharon ha dimostrato il contrario.
Ecco perché un numero sempre più alto di coloni, soprattutto giovani, non ha più fiducia nel processo decisionale democratico. A che serve vincere le elezioni se il risultato verrà semplicemente ignorato? A che serve fare campagna presso i parlamentari se qualunque successo verrà ribaltato dalla compravendita di voti?
Probabilmente è troppo tardi per cambiare la testa di quelli che oggi fomentano la violenza. Ma se non vogliamo che i loro ranghi si infoltiscano, dobbiamo ripristinare la fiducia delle giovani generazioni nella democrazia. Un passo in questo senso potrebbe essere la legge attualmente in discussione che prescrive un referendum, elezioni o almeno una maggioranza di due terzi della Knesset per cedere territorio israeliano. Ma altrettanto importante è cambiare la cultura politica del paese, e questo potrà avvenire soltanto se tutti i giornalisti, gli accademici, i giuristi e i parlamentari che proclamano ad alta voce la loro dedizione alla democrazia smetteranno di insabbiare le aberrazioni che ne vengono fatte in nome della “pace”, esigendo piuttosto il rigoroso rispetto delle regole del processo decisionale democratico anche quando i risultati sono contrari alla loro parte politica. Altrimenti rischieremo di assistere a un allargamento del circolo della violenza che nessuna azione repressiva riuscirà a spegnere.

(Da: Jerusalem Post, 25.09.08)

Nella foto in alto: Una manifestazione di “Pace Adesso“ a Hebron