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Il Forum dei famigliari degli ostaggi deportati a Gaza dai terroristi palestinesi intende intentare una causa contro i capi di Hamas presso la Corte Penale Internazionale per rapimenti, sparizioni forzate, violenze sessuali, torture e altro ancora. Lo ha comunicato sabato sera YnetNews dicendo che mercoledì una delegazione di 100 rappresentanti e avvocati si recherà per questo all’Aja. L’iniziativa mira a ottenere mandati di arresto internazionali contro i capi di Hamas e aumentare la pressione per il rilascio degli ostaggi.

“Coloro che dicono che in nessuna circostanza dovremmo entrare a Rafah, in pratica dicono che dobbiamo perdere la guerra e tenerci Hamas”. Lo ha affermato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in un’intervista domenica alla ABC. “Sono d’accordo con gli americani – ha aggiunto Netanyahu – lo faremo garantendo un passaggio sicuro alla popolazione civile in modo che possa allontanarsi. Ma attaccheremo i battaglioni terroristi di Hamas che rimangono a Rafah, l’ultimo bastione”. Intanto, riporta il Wall Street Journal, l’Egitto ha avvertito Hamas che dovrà arrivare a un accordo di cessate il fuoco (in cambio degli ostaggi) entro due settimane, altrimenti Israele entrerà a Rafah.

La relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi, Francesca Albanese, ha attaccato sabato il presidente francese Emmanuel Macron per aver definito la carneficina del 7 ottobre “il più grande massacro antisemita del nostro secolo”. “Le vittime del 7/10 – ha scritto Francesca Albanese su X – non sono state uccise per il loro ebraismo, ma in risposta all’oppressione di Israele”. Dura la reazione del Ministro degli esteri francese, che su X ha ribadito: “Quella del 7 ottobre è stata la più grande strage antisemita del XXI secolo. Negarlo è un errore. Apparire come se la si giustificasse coinvolgendo il nome delle Nazioni Unite è una vergogna. Questi commenti sono tanto più scandalosi in quanto la lotta contro l’antisemitismo e tutte le forme di razzismo è al centro della fondazione dell’Onu”.

Sotto il quartier generale dell’Unrwa nella Striscia di Gaza, le Forze di Difesa israeliane hanno scoperto una delle risorse più significative e top secret di Hamas: un data center sotterraneo utilizzato dal gruppo terroristico per intelligence e comunicazioni. Hamas ha costruito la server farm, completa di sala elettrica e alloggi per lo staff informatico di Hamas, direttamente sotto il complesso dell’agenzia Onu per i profughi palestinesi e vicina a una scuola dell’Unrwa, nell’esclusivo quartiere Al Rimal della città di Gaza, per assicurarsi che Israele non l’avrebbe colpita. Giovedì alcuni giornalisti, tra i quali l’inviato di Times of Israel, hanno potuto visitare i passaggi sotterranei e il data center, nonché il soprastante quartier generale dell’Unrwa. Come prevedibile, con un tweet sabato sera il capo dell’Unrwa Philippe Lazzarini ha negato che l’agenzia avesse la minima idea dell’esistenza del data center di Hamas sotto il suo quartier generale a Gaza.

Il data center sotterraneo di Hamas sotto il quartier generale dell’Unrwa, a Gaza City (clicca per ingrandire)

Israele è disposto a lasciar andare incolumi in esilio la mente del massacro del 7 ottobre Yahya Sinwar e altri 5 capi di Hamas, tra cui Mohamed Deif, in cambio del rilascio di tutti gli ostaggi e della fine del dominio di Hamas sulla striscia di Gaza. Lo ha riferito la NBC citando sei “alti funzionari e consiglieri israeliani” secondo in quali la proposta è stata sottoposta ai negoziatori americani a Parigi, ma non è stata inoltrata a Hamas perché il gruppo terroristico ha escluso in partenza anche solo di prenderla in considerazione.

La questione di come ottenere la liberazione degli ostaggi lacera l’opinione pubblica israeliana, divisa tra l’assoluta urgenza di riportarli a casa e le implicazioni che comporterebbe capitolare alle condizioni di Hamas, tra cui la scarcerazione di centinaia o migliaia di terroristi, come avvenne nel 2011 per l’ostaggio Gilad Shalit che portò alla scarcerazione fra gli altri di Yahya Sinwar, la mente della carneficina del 7 ottobre. Comprensibilmente molti famigliari di ostaggi, riuniti nel “Hostages and Missing Families Forum”, premono per un accordo “a qualunque costo”. Ma vi sono anche altri famigliari, riuniti nel “Tikva Forum of Hostage Families”, che desiderano altrettanto fortemente un accordo ma “non ad ogni costo”. “Abbiamo a cuore il futuro di tutto Israele – spiega Zvika Mor, il cui figlio Eitan di 23 anni è nelle mani di Hamas a Gaza dal 7 ottobre – Dobbiamo costringere Hamas ad arrendersi e la guerra è lo strumento principale per vincere e debellare Hamas. Stiamo mandando i nostri soldati a combattere e sappiamo che alcuni di loro non torneranno vivi. Se la liberazione degli ostaggi fosse la questione prioritaria in assoluto, avremmo potuto cedere subito a Hamas. Noi vogliamo che il governo permetta alle Forze di Difesa israeliane di vincere questa guerra e che questa guerra ponga fine a tutte le guerre”.

Un tribunale di Ibb, provincia dello Yemen controllata degli Houthi sostenuti dall’’Iran, ha condannato all’esecuzione pubblica 13 persone con l’accusa di omosessualità. Lo ha riferito martedì l’agenzia francese AFP. Altre 35 persone sono state arrestate per accuse simili. “Gli Houthi stanno intensificando i loro abusi in patria mentre il mondo è occupato a guardarsi dai loro attacchi nel Mar Rosso” ha detto Niku Jafarnia, ricercattice yemenita di Human Rights Watch. Un rapporto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 2023 riferiva che “gli Houthi incarcerano minorenni anche di appena 13 anni”, alcuni dei quali “accusati di ‘atti indecenti’ per il loro presunto orientamento omosessuale”.

Le immagini dei volti delle persone assassinate il 7 ottobre al Festival musicale Supernova esposte il mercoledì 7 febbraio davanti alla Knesset a Gerusalemme (clicca per ingrandire)

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“Mentre il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, tiene in ostaggio 136 persone, alcuni suoi famigliari ricevono cure salvavita in un ospedale israeliano. Il nipote della sorella, nato nei giorni scorsi in Israele, è ricoverato in terapia intensiva al Soroka di Be’er Sheva”. Ne ha dato notizia lunedì il giornalista Almog Boker di Canale 13, aggiungendo: “Una vicenda che riassume tutta la differenza tra l’umanità israeliana e la crudeltà di Hamas”. Diverse sorelle di Haniyeh hanno acquisito cittadinanza israeliana per matrimonio e vivono nella città beduina di Tel Sheva, nel Negev. Una di loro ha dato alla luce alcuni giorni fa un bambino prematuro, ora in cura presso il reparto il Soroka. Il giornalista di Canale 13 ha spiegato come per il personale dell’ospedale la situazione non sia facile da gestire: avere nella struttura i parenti di Haniyeh, uno dei capi del gruppo terroristico da cui dipendono le vite di 136 ostaggi ancora imprigionati a Gaza, “è molto delicato. Ma l’equipe medica sa che è suo dovere prendersi cura del piccolo e della madre e sta trattando il caso in modo professionale”. Non è la prima volta che parenti di Haniyeh, da anni al riparo in Qatar, vengono curati in ospedali israeliani. Ad esempio, era accaduto nel 2014 quando una delle figlie, allora ventenne, era stata ricoverata d’urgenza all’Ichilov di Tel Aviv.

La settimana scorsa, la guerra in corso contro Hamas a Gaza è diventata la più lunga mai combattuta da Israele dopo la guerra d’Indipendenza del 1948/49. Mentre i combattimenti sono continuati, domenica, per il 121esimo giorno (quasi quattro mesi dopo che Hamas ha scatenato il conflitto con la carneficina perpetrata nel sud di Israele il 7 ottobre), la guerra ha già superato per durata gli altri grandi scontri armati che Israele ha dovuto combattere, tra cui la prima guerra in Libano del 1982 (116 giorni), la seconda guerra del Libano dell’estate 2006 (34 giorni); la guerra dello Yom Kippur dell’ottobre 1973 (19 giorni), e la guerra dei sei giorni del giugno 1967 (6 giorni). Va ricordato tuttavia che, in realtà, lo stato d’Israele è in stato di guerra permanente sin dalla sua nascita nel 1948 (come conflitto arabo-israeliano o conflitto israelo-palestinese), giacché lo stato ebraico ha sempre dovuto fare i conti con forti elementi ostili schierati ai suoi confini e oltre, con o senza una formale dichiarazione di guerra, e ha sempre dovuto difendersi da forme di “guerriglia” terroristica, mai cessate tra una conflagrazione e l’altra.