Soldi buttati

Ha senso dare denaro all’Autorità Palestinese se non insegna alla sua gente a convivere con Israele?

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_1935Il primo ministro palestinese Salaam Fayad ha dichiarato, lunedì, che ai paesi donatori riuniti a Parigi la prossima settimana intende chiedere un pacchetto di aiuti da 5,6 miliardi di dollari nell’arco di tre anni. Il mese scorso, l’inviato del Quartetto Tony Blair ha reso noto un piano di grandi progetti internazionali volti ad aiutare l’economia palestinese. “E’ una parte cruciale del processo – ha detto Blair – perché senza speranza di benessere, senza elevare il livello di vita, senza offrire alla gente un interesse economico nel futuro, l’azione politica non potrà mai avere successo”. Blair ha ragione quando dice che c’è una connessione tra economia e politica, tra speranza e sicurezza. Il problema è che i precedenti palestinesi in fatto di collegamento fra aiuti e progressi economici sono assai desolanti.
Secondo dati della Banca Mondiale, ad esempio, tra il 1993 – anno degli Accordi di Oslo – e la fine del 2001, i palestinesi hanno ricevuto più di 4 miliardi di dollari in aiuti, cioè più di quanto abbia ricevuto qualunque altra popolazione al mondo.
(Il Piano Marshall distribuì 60 miliardi di dollari – ai prezzi attuali – pari a 272 dollari per ogni europeo dei paesi riceventi. I palestinesi da Oslo a tutto il 2001 hanno ricevuto 4 miliardi di dollari, pari a 1.330 dollari a testa. In altre parole, i palestinesi hanno ricevuto più di quattro volte quanto ricevuto dagli europei col Piano Marshall. Su base annua, i palestinesi hanno ricevuto 161 dollari a persona all’anno contro i 68 dollari a persona all’anno degli europei nei quattro anni del Piano Marshall, vale a dire che i palestinesi hanno ricevuto a testa più del doppio e per il doppio del tempo rispetto al Piano Marshall).
Dopo che gli Accordi di Oslo sono naufragati in una guerra terroristica, i palestinesi hanno ricevuto in realtà più aiuti di prima, e ancora di più dopo l’ascesa al potere di Hamas. Lo scorso gennaio il sottosegretario generale dell’Onu Ibrahim Gambari ha reso noto che, da quando un anno prima Hamas aveva vinto le elezioni parlamentari palestinesi, gli aiuti ai palestinesi – senza contare i fondi andati direttamente a Hamas – hanno totalizzato la stupefacente cifra di 1,2 miliardi di dollari, pari a un aumento del 10% rispetto all’anno precedente. Nonostante questo flusso massiccio, per lo più sotto forma di aiuti alimentari e di programmi cash-for-work, il reddito pro capite palestinese è sceso nel 2006 di almeno l’8% e i livelli di povertà sono cresciuti di circa il 30%.
Oltre ad aver optato per il terrorismo, l’altra sciagura economica dei palestinesi è stata la corruzione. Secondo stime riportare da David Samuels in un articolo del 2005 sull’Atlantic Monthly, Yasser Arafat e i suoi più stretti consiglieri avrebbero rubato almeno la metà dei 7 miliardi di dollari di aiuti inviati all’Autorità Palestinese. Citando un rapporto del Fondo Monetario Internazionale, Samuels calcolava che fra il 1995 e il 2000 Arafat si sarebbe personalmente impossessato di 900 milioni di dollari in aiuti internazionali, senza contare tangenti e altre forme di corruzione. È per questo motivo che nel 2005 George T. Abed, un ex funzionario del Fondo Monetario nominato governatore dell’Autorità Monetaria Palestinese, affermò: “Se si riversano un sacco di aiuti finanziari tutti in una volta, finisce che vanno sprecati”.
Alcuni sostengono che la situazione oggi è differente, che oggi non si tratterebbe più di buttare al vento denaro sonante. Ma anche questa si è già sentita. Nel 2004 Nigel Roberts, direttore della Banca Mondiale in Cisgiordania e striscia di Gaza, disse ai donatori internazionali: “Forse il vostro miliardo di dollari all’anno non ha finora prodotto granché, ma noi riteniamo che si potrà fare di meglio nei prossimi tre o quattro anni”.
Chiaramente, come riconosce lo stesso Blair, ogni dollaro in più stanziato per i palestinesi dovrebbe essere strettamente legato a un giro di vite contro la corruzione, all’istituzione di uno stato di diritto, allo smantellamento delle bande armate, alla cooperazione economica con i paesi vicini, Israele compreso. Ma non basta.
È impossibile, infatti, fare una qualunque di queste cose finché la stessa Autorità Palestinese che Abu Mazen controlla continua a insegnare – che ci creda o meno – che la futura “Palestina” sorgerà al posto di Israele, e non come un pacifico vicino a fianco di Israele. Il 28 novembre scorso, il giorno dopo la conferenza di Annapolis, la tv ufficiale dell’Autorità Palestinese trasmetteva una mappa di Israele, Cisgiordania e striscia di Gaza tutta coperta con la bandiera palestinese. Un mese prima, la tv palestinese aveva ripetutamente mandato in onda una canzone che descrive la Palestina con queste parole: “Da Gerusalemme ad Acco e da Haifa e Gerico e Gaza e Ramallah, da Betlemme e Giaffa, da Be’er Sheva e Ramle, da Nablus alla Galilea, da Tiberiade a Jenin a Hebron”.
Abu Mazen non è in grado di controllare la striscia di Gaza e può darsi che non sia in grado di controllare molto nemmeno Fatah. Ma certamente controlla i suoi mass-media ufficiali. Non ha senso buttargli altro denaro se intanto non fa nemmeno il minimo necessario per mostrare che questi fondi non verranno impiegati per uno stato votato alla cancellazione di Israele.
Ancora più cruciale, poi, il fatto che porre fine all’istigazione contro Israele nei mass-media, nelle scuole, nelle moschee sotto controllo dell’Autorità Palestinese costituirebbe un passo vitale verso la creazione di un’atmosfera in cui Abu Mazen potrebbe iniziare ad insegnare alla sua gente i legittimi diritti di sovranità dello stato ebraico e la conseguente necessità di accettare un compromesso. Sicuramente, se Abu Mazen vuole guidare i palestinesi verso la riconciliazione, ha tutto l’interesse a spiegare alla sua gente perché questo passo è giusto e necessario.

(Da: Jerusalem Post, 11.12.07)