Solo paranoia ebraica?

Non si possono ignorare slogan e comportamenti diffusi fra gli arabi israeliani.

Di Shaul Rosenfeld

image_2828“Terrorismo poliziesco”, “campagna repressiva”, “caccia alle streghe”, “situazione kafkiana”, “tattiche fasciste diventate la regola”, “dichiarazione di guerra contro gli arabi israeliani”, “minaccia alla democrazia”: queste sono solo alcune delle espressioni usate da esponenti arabi israeliani per denunciare l’arresto di Ameer Makhoul e Omar Said, sospettati di spionaggio a favore dei terroristi Hezbollah. All’insegna di questi slogan, alcune centinaia di arabi israeliani si sono scesi in piazza,a Haifa, brandendo bandiere palestinesi e intonando l’inno nazionale palestinese per protestare contro “la trappola tesa a danno di chi dissente dalla politica del governo”, per dirla con le parole del parlamentare del partito Balad, Hanin Zoabi. E come si potrebbe non simpatizzare per le “vittime innocenti” cadute nella trappola tesa dal governo?
In questo caso è toccata a Makhoul e Said. Tre anni fa era stata la volta di un altro illustre esponente del partito di Zoabi, il parlamentare Azmi Bishara, che se n’è andato da Israele per non farvi più ritorno: anche lui, a quanto pare, era perseguitato solo perché in disaccordo con la politica del governo. Intanto, nel corso dell’ultimo decennio, centinaia di arabi israeliani sono stati oggetto delle attenzioni di solerti funzionari governativi israeliani che li hanno “intrappolati” con l’accusa di compiere atti terroristici, di aiutare i nemici giurati del paese e di contrabbandare armi ed esplosivi. Secondo gli arabi, tribunali e giudici israeliani fanno tutti parte delle “tattiche fasciste che sono diventate la regola”.
Eppure, nonostante tutto questo, emerge un accenno di dubbio che le accuse a carico di Makhoul e Said circa gravi reati contro la sicurezza, compreso spionaggio e contatti con un agente Hezbollah, non siano soltanto il frutto della esaltata paranoia di governo e polizia; proprio come salta fuori che le accuse contro parecchi arabi israeliani non erano poi solo il frutto della fervida fantasia dei servizi di sicurezza.
In realtà, a dispetto del “terrorismo poliziesco” e della “campagna repressiva”, lo stato d’Israele normalmente non chiede conto ai vari Makhoul e ai suoi pari di dichiarazioni anche gravissime. Tra le perle di saggezza letteraria tranquillamente dispensate da Makhoul si trovano frasi come: “odio la bandiera israeliana”, “i lanci di razzi su Israele non sono un crimine di guerra”, “gli arabi israeliani devono fronteggiare una minaccia razzista e colonialista da parte dello stato”. E sono state per lo più ignorate dalle autorità statali anche le accuse a Israele di pianificare un Olocausto a Gaza, come ha sostenuto il capo del Comitato di Monitoraggio Arabo-Israeliano, e le gagliarde acclamazioni indirizzate ai “martiri” in quella stessa adunata.
Resta il fatto che, sebbene sia solo un manipolo di arabi israeliani quello che è uscito dai binari macchiandosi di reati veri e propri, la vasta maggioranza della comunità arabo-israeliana continua ad affidarsi a rappresentanti che considerano l’eliminazione dell’impresa sionista come il loro supremo obiettivo. È lo stesso manipolo che, con i suoi supporter, non vide nulla di sbagliato nell’insorgere contro Israele proprio nel momento in cui il paese era in preda al dolore e alla sofferenza, a ridosso dello scoppio della seconda intifada, l’intifada delle stragi. Sono quelli che, in quell’ottobre 2000, scesero con violenza nelle strade attaccando tutto e tutti, prendendosela con lo stato e i suoi cittadini ebrei, esattamente nei giorni in cui i loro “fratelli” in Cisgiordania e striscia di Gaza lanciavano una delle più sanguinose campagne terroristiche contro Israele.
In effetti, esprimere solidarietà ai nemici di Israele, denigrare il carattere dello stato, appoggiare le azioni violente contro l’occupazione, mostrare piena comprensione per le motivazioni di martiri prescelti paiono essere in larga misura le precondizioni che ogni politico arabo-israeliano deve soddisfare se vuole guadagnarsi il sostegno della sua comunità.
Nel frattempo, diversi rappresentanti della comunità arabo-israeliana si incontrano di tanto in tanto con illuminati governanti arabi allo scopo di discettare delle ingiustizie di Israele, del suo “regime da apartheid”, del razzismo dilagante nello stato ebraico. L’ultima volta sono stati ricevuti dal glorioso monarca di Libia Muammar Gheddafi.
Vale anche la pena ricordare che la visione delineata nei documenti redatti da figure di spicco della comunità arabo-israeliana asserisce esplicitamente che “Israele è il risultato di un atto colonialista avviato dalle élite ebraico-sioniste in Europa e in occidente”. Le “richieste minime” formulate da uno degli esponenti più moderati, Asad Ghanem dell’Università di Haifa, sono di cambiare la definizione di Israele da “stato ebraico” in “stato multiculturale”, di permettere ai profughi palestinesi (e loro discendenti) di stabilirsi dentro Israele assumendone la piena cittadinanza, di garantire piena cittadinanza israeliana a tutti i discendenti di chiunque abbia sposato un cittadino israeliano.
Ma naturalmente tutto questo non intaccherà mai la convinzione diffusa fra tante icone dell’accademia, del giornalismo e della cultura, anche in Israele, secondo cui il ritorno alle linee del 1967 e la nascita di uno stato palestinese porterebbe automaticamente alla pace dei “due stati” e, ovviamente, alla fine di ogni conflitto.

(Da: YnetNews, 05.11.10)

Nella foto in alto: Shaul Rosenfeld, autore di questo articolo