Sopravvissuto alla Shoà, scampato alla strage delle Olimpiadi di Monaco

Shaul Ladany, rinchiuso da bambino a Bergen-Belsen e sfuggito per un soffio ai terroristi palestinesi: “Noi siamo ancora qui: non solo come individui, ma anche come paese"

Shaul Ladany durante la gara di marcia di 50 km, Olimpiadi di Monaco 1972

Lo chiamano il sopravvissuto estremo: Shaul Ladany è sopravvissuto a un campo di concentramento nazista ed è scampato al massacro di 11 suoi compagni atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Decenni dopo Shaul Ladany, oggi 86enne, è tornato in Germania per visitare i due luoghi in cui è sfuggito per un soffio alla morte per mano di assassini animati dall’odio.

Sabato scorso Ladany, nato nel 1936 a Belgrado (ex Jugoslavia), ha accompagnato alcuni suoi familiari al campo di concentramento di Bergen-Belsen, nel nord della Germania, per mostrare loro il luogo dove fu imprigionato dai nazisti quando era un bambino di 8 anni. Dopo di che, lunedì, l’arzillo ottuagenario parteciperà a una cerimonia congiunta israelo-tedesco a Monaco, in occasione del 50esimo anniversario dell’attentato ai giochi olimpici ad opera di terroristi palestinesi.

Ladany, che gareggiò ai giochi di Monaco come marciatore, ha camminato a passo spedito in scarpe da ginnastica e cappello da sole guidando sua nipote, sua sorella minore e i suoi tre figli a Bergen-Belsen, oggi trasformata in un memoriale. E ha indicato loro un appezzamento di terreno, oggi coperto da arbusti di mirtilli ed erica e da alte betulle e pini, dove un tempo sorgeva la baracca n. 10. E’ lì che venne rinchiuso con i suoi genitori e due sorelle per circa sei mesi, nel 1944, prima che fosse loro permesso di andarsene grazie a un raro accordo negoziato da fondazioni ebraiche ungheresi e svizzere, che pagarono il riscatto preteso dai nazisti per lasciar andare circa 1.600 ebrei innocenti deportati dall’Ungheria. “Non è piacevole ricordare qui quel periodo” dice Ladany, intervistato dall’Associated Press nell’ex campo di concentramento. Ma per lui era importante tornare e raccontare ai suoi parenti gli orrori che subì durante la Shoà, mentre 6 milioni di ebrei europei venivano trucidati. È una sorta di pellegrinaggio che ha già fatto diverse volte in passato con altri membri della sua famiglia. “Porto sempre qui uno dei miei parenti per educarli, per istruirli su cosa è successo”, spiega Ladany. Anche se all’epoca era un bambino, Ladany ricorda ancora la fame implacabile e quegli appelli che sembravano infiniti mentre le guardie contavano i detenuti del campo esposti al vento gelido fuori dalle baracche.

Shaul Ladany: “Se non fossi stato nell’altra palazzina, il mio nome oggi sarebbe su questa lapide”

I Ladany erano fuggiti da Belgrado nel 1941 dopo che la loro casa era stata bombardata dalla Luftwaffe, l’aviazione militare tedesca. Scapparono a Budapest, in Ungheria, ma alla fine furono catturati dai nazisti e deportati a Bergen-Belsen, un campo di concentramento dove morirono 52.000 detenuti per lo più ebrei e più di 19.000 prigionieri di guerra, per lo più sovietici. Dopo essere stati scarcerati nello scambio, Ladany e la sua famiglia si recarono in Svizzera per poi trasferirsi nel 1948 in Israele. Lì è cresciuto e ha studiato all’Università di Gerusalemme fino a diventare un professore di ingegneria e gestione industriale all’Università Ben Gurion, nonché un bravo marciatore: detiene tuttora il record mondiale sui 50 km, stabilito nel 1972.

Quando arrivò a Monaco per le Olimpiadi, racconta, aveva 36 anni e cercava di indovinare l’età di ogni tedesco che incontrava: “Se mi sembrava che potesse avere un’età tale d’aver partecipato alle atrocità del Terzo Reich, evitavo ogni contatto”. Ma quella volta non furono i tedeschi a minacciare la sua vita. Nelle prime ore della mattina del 5 settembre, membri del gruppo terrorista palestinese Settembre Nero fecero irruzione nel villaggio olimpico, ucciso due atleti della delegazione israeliana e ne presero altri nove in ostaggio pretendendo il rilascio di più di duecento terroristi palestinesi detenuti in Israele e dei tedeschi Andreas Baader e Ulrike Meinhof, fondatori del gruppo terrorista RAF (Frazione dell’Armata Rossa), detenuti nella Germania occidentale. Ladany, ancora una volta, sopravvisse per un pelo. Un terrorizzato compagno di stanza lo svegliò dicendogli che un altro atleta era stato ucciso. Lui si infilò rapidamente le scarpe da ginnastica e corse alla porta del loro appartamento. Appena fuori, vide un funzionario olimpico che supplicava un uomo in tuta e cappello, poi identificato come il capo degli aggressori, di essere “umano” e far entrare funzionari della Croce Rossa in un appartamento adiacente. L’uomo, ricorda Ladany, rispose: “Neanche gli ebrei sono umani”. Ladany girò sui tacchi, si mise dei vestiti sopra il pigiama e si unì agli altri compagni di squadra in fuga. Non tutti furono così fortunati. Tutti e nove gli ostaggi (e un agente di polizia) furono uccisi durante un fallito tentativo di salvataggio da parte delle forze tedesche.

Dice Ladany che, mentre prima di quell’attentato le Olimpiadi erano “un puro incontro sportivo di gioia e competizione”, dopo di allora nessun evento del genere si può più tenere senza rigorose misure di sicurezza. “Da allora – dice – il mondo è cambiato”. Ladany ha in animo di indossare la sua giacca originale della squadra israeliana del 1972 per partecipare alla cerimonia del 50esimo anniversario del massacro, e non vede l’ora di mostrare al mondo che sia lui che Israele sono sopravvissuti. “Coloro che hanno cercato di uccidermi non sono più vivi” – conclude – Noi siamo ancora qui. Non solo come individui, ma anche come paese”.

(Da: Israel HaYom, 4.9.22)