Stato bi-nazionale: esercizi di futile retorica

Alcuni intellettuali israeliani promuovo falsi concetti immorali

di Gadi Taub

image_2765Il professor Yehouda Shenhav ha pubblicato di recente un libro intitolato “The Green Line Trap” (La trappola della Linea Verde). Intervistato in occasione dell’uscita del libro, fra le altre cose Shenhav ha raccomandato di abbandonare l’idea della divisione del paese a vantaggio della soluzione “ad un unico stato”. È un genere ormai familiare: Shenhav appartiene a un gruppo di intellettuali detti “post-sionisti” che si ammantano di qualifiche come “sinistra radicale” o “post-coloniale” nel momento in cui pretendono che gli ebrei rinuncino al loro diritto all’autodeterminazione. In nome della democrazia, naturalmente.
L’argomento viene presentato sotto una bella riverniciatura di lessico dei diritti umani, e presuppone una concezione più generale che da anni viene formulata nel mondo accademico: gli studi post-coloniali. Secondo questa posizione, l’occidente è un devoto nemico della democrazia, laddove tutte le vittime dell’occidente sarebbero, per lo meno implicitamente, campioni di democrazia.
Secondo Shenhav, lo stesso vale anche da queste parti: tutto ciò che dobbiamo fare è cancellare quell’apartheid occidentale conosciuto come Israele, e automaticamente vedremo nascere una magnifica democrazia a maggioranza araba.
Perché regga questa fondamentale menzogna, bisogna fare ricorso a un ragguardevole trucco retorico e a qualche sofisticheria. Si possono dire molte cose del professor Shenhav, ma certamente non lo si può accusare d’essere troppo sofisticato. Ecco perché la sua intervista svela l’indegnità morale, oltre che intellettuale, della concezione la lui sostenuta.
Secondo Shenhav, c’è una linea diretta che lega il 1948 e il 1967. Perciò, esattamente come sostengono i coloni, non vi sarebbe nessuna reale differenza fra Israele vero e proprio (pre-67) e Israele al di là della Linea Verde (post-67). Dal suo punto di vista, la differenza fra vivere sotto occupazione oppure come cittadini dello Stato di Israele sarebbe a quanto pare una trascurabile sfumatura. Anzi, coloro che difendono il progetto sionista all’interno dei confini d’Israele attesterebbero in questo modo il loro odio verso il prossimo, visto che non vogliono integrarsi sul serio nello “spazio arabo”. Viceversa, secondo Shenhav, integrarsi nello spazio arabo sarebbe la strada giusta per promuovere la democrazia, laddove Israele, descritto come una “branca dell’Europa”, emanerebbe un forte puzzo coloniale. Evidentemente gli stati arabi sarebbero dei modelli di democrazia, mentre Israele – sempre secondo Shenhav – si fonderebbe su “leggi razziali e su un costante stato d’emergenza”.
L’articolo è pieno di falsità di questo genere. […] Ma soprattutto bisogna dire qualcosa circa l’irresponsabilità morale di questo genere di intellettuali israeliani. È sicuramente molto gratificante, di questi tempi, rispetto a certe mode in voga nelle accademie straniere, riempirsi la bocca di “bi-nazionalismo” e di “integrazione nella regione”, cosa che può anche fruttare pubblicazioni e avanzamenti di carriera. Ma qualunque persona ragionevole capisce perfettamente che la soluzione “ad un unico stato” significherebbe una sola cosa: guerra civile cronica.
E poi c’è qualcosa di disgustoso nel fatto che coloro che promuovono questo concetto, in Israele, sono quasi sempre individui più che benestanti, che si dedicano a professioni universali ben adattabili: persone, insomma, che potrebbero partire da qui, e andarsene a Stanford o a Cambridge, mentre quelli veramente schiacciati – sia ebrei che arabi – non avrebbero nessun posto dove andare, e finirebbero col restare qui ad annegare in un bagno di sangue.

(Da: YnetNews, 23.2.10)

Nella foto in alto: Gadi Taub, autore di questo articolo