Sulla canna dei fucili

La futura dirigenza palestinese non emergerà dalle urne.

di Shlomo Avineri

image_444La futura dirigenza palestinese non emergerà dalle urne, indipendentemente dal fatto che le elezioni nell’Autorità Palestinese abbiano luogo o meno il 9 gennaio 2005. Poco importa chi vincerà, né se le elezioni si svolgeranno bene o male. Anche questo fa parte del pernicioso retaggio lasciato da Yasser Arafat alla sua gente.
Quando venne istituita l’Autorità Palestinese, sulla scorta degli Accordi di Oslo, la speranza era che il sistema politico dello stato palestinese in embrione fosse caratterizzato da standard democratici. Molti sostennero che, giacché i palestinesi sin dal 1967 erano stati esposti non solo all’occupazione israeliana ma anche alla società aperta d’Israele, alcuni valori democratici sarebbero passati nelle loro nascenti strutture istituzionali. Attivisti palestinesi che, nonostante le difficili condizioni, avevano provato i vantaggi di stampa libera, accesso a un sistema giudiziario indipendente, consapevolezza dei diritti civili, pluralismo politici e multipartitismo – si sosteneva – non vi avrebbero rinunciato facilmente.
Invece il sistema importato da Arafat e dai suoi colleghi di Tunisi era completamente differente, e troncò sul nascere qualunque promessa di società aperta che fosse emersa nelle aree autonome palestinesi. Come altri autocrati arabi, dalla Siria all’Egitto all’Algeria, Arafat fondò il suo governo sul controllo personale su svariati servizi di sicurezza e milizie armate spesso in competizione fra loro. L’Autorità Palestinese divenne un tipico regime da mukhabarat, da polizia segreta. Racconta Dennis Ross, nel suo recente libro “The Missing Peace: The Inside Story of the Fight for Middle East Peace”, che quando venne chiesto ad Arafat perché avesse bisogno di sette servizi di sicurezza, la sua risposta fu: “Ma Mubarak nel ha dodici!”.
Dal momento che i membri di questi servizi di sicurezza – e se ne sono visti a centinaia, in diverse uniformi, ai funerali di Arafat – formavano la base di potere del suo regime, i tentativi americani ed europei di riformare l’Autorità Palestinese, per quanto ben intenzionati, erano completamente sbagliati.
Non c’è realistica possibilità che i palestinesi sviluppino una struttura di sicurezza uniforme e trasparente. La pletora di servizi di sicurezza non era frutto di cattiva amministrazione, né di inefficienza. Era il segreto, autentico fondamento del governo di Arafat. Ecco perché egli non acconsentì mai a condividere il controllo su di essi con nessuno dei primi ministri che gli vennero imposti dalle pressioni occidentali.
Da questo punto di vista, il nascente organismo politico palestinese non differisce da quelli di altri regimi arabi. È una mesta, ma necessaria considerazione sulla politica araba attuale, quella per cui questa è la sola regione al mondo che non abbia sperimentato, negli ultimi due decenni, nessun serio tentativo di modernizzazione politica, né dall’alto (alla Mikhail Gorbachev), né dal basso (come Lech Walesa e Vaclav Havel).
Che questo non sia un difetto inerente all’islam è attestato da esempi come la Turchia e, più avanti, il Bangladesh e l’Indonesia. Più vicino a noi, l’Iran – un’autoproclamata repubblica islamica – mostra più segni di pluralismo e di apertura di qualunque paese arabo, nonostante gli attuali rovesci dei cosiddetti riformatori.
Arafat non ha mai districato il suo popolo dal lascito del sottosviluppo politico. Come disse alcuni anni fa un intellettuale palestinese, “se saremo fortunati, fra un po’ di anni saremo come l’Egitto; se saremo sfortunati, saremo come la Siria”. Valutazione triste ma assennata, cui dovrebbero prestare attenzione tutti coloro che credono che vi sia una rapida ricetta democratica per i problemi della società palestinese.
Il governo autoritario di Arafat non era solo una questione di inclinazioni personali. Esso si è profondamente radicato nella vita palestinese che, come altre società arabe, manca ancora della maggior parte degli ingredienti di una società civile: pluralismo, tolleranza, coraggio civile, non conformismo, ancoraggio teorico e istituzionale della responsabilità individuale.
Non sono cose destinate a mutare dalla sera alla mattina. Forse il successore di Arafat sarà più moderato. Ma le radici del suo potere e della sua legittimazione interna continueranno a nascere dalla canna del fucile.
Un crudele promemoria di ciò è stato indirizzato al capo del comitato esecutivo dell’Olp Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e all’ex ministro della sicurezza Muhammad Dahlan quando sono stati aggrediti a colpi d’arma da fuoco alla tenda funebre per Arafat nella città di Gaza.

(Da: Jerusalem Post, 16.11.04)

Nella foto in alto: l’autore di questo articolo: Shlomo Avineri, professore di scienze politiche all’Università di Gerusalemme