Sviluppo e benessere economico non fanno il gioco degli interessi politici dell’Autorità Palestinese

Il comportamento dei dirigenti palestinesi nel corso degli anni ci dice che stabilità e sviluppo non figurano nella loro lista di priorità

Di Eyal Zisser

Eyal Zisser, autore di questo articolo

Alla vigilia del seminario economico sponsorizzato dagli Stati Uniti in Bahrain, l’amministrazione americana ha rivelato durante il fine settimana una parte del suo piano di pace per il Medio Oriente, culminante in una proposta di investimenti e infrastrutture, direttamente o indirettamente a vantaggio dei palestinesi, per un totale di 50 miliardi di dollari. Più della metà dei fondi verrebbe direttamente destinata a Giudea e Samaria (Cisgiordania) e alla striscia di Gaza. L’altra porzione a progetti economici nei paesi arabi limitrofi, in particolare in Egitto e Giordania.

Alcuni dei progetti citati ricordano proposte del passato, come il collegamento per ferrovia o autostrada fra striscia di Gaza e Cisgiordania, e la costruzione di impianti produttivi del tipo di quelli che i palestinesi hanno già distrutto o incendiato in precedenti ondate di violenza nei decenni scorsi.

Il diavolo, tuttavia, è nei dettagli. In effetti, un esame più approfondito del piano economico proposto dagli americani suscita alcuni interrogativi e dubbi sulla sua fattibilità. Ad esempio, non è del tutto chiaro da dove verranno i soldi. Gli americani sperano che i ricchi paesi petroliferi del Golfo Persico metteranno generosamente mano al portafogli, ma si tratta di paesi che si sono fatti la reputazione d’essere sempre pronti a promettere denaro, a favore dei palestinesi o per altre questioni regionali, senza poi dare seguito alle loro promesse.

Pagina Facebook di Fatah, 16.6.19: “Il 24 25 e 26 giugno, escalation di scontri con l’occupazione israeliana in tutti i distretti della madrepatria in opposizione all’accordo del secolo e al workshop di Manama”

In ogni caso, l’obiettivo di 50 miliardi di dollari dovrebbe essere raggiunto in un periodo di dieci anni. Sebbene questo significhi 5 miliardi all’anno, dunque un importo molto più verosimile, tuttavia non si può ancora essere sicuri che gli americani saranno in grado di procurarli.

Indipendentemente da tutto questo, bisogna tenere a mente che la parte economica del piano dipende interamente dalla capacità di realizzare nel frattempo vere svolte diplomatiche. Va da sé, quindi, che finché la situazione della sicurezza d’Israele rimane instabile e finché Hamas continua a controllare la striscia di Gaza, la possibilità di far progredire le iniziative economiche rimane estremamente limitata.

Questi dettagli, tuttavia, non interessano ai palestinesi. A prescindere. I palestinesi hanno già deciso di respingere il piano americano, insieme a tutti i tentativi arabi o internazionali di promuovere la stabilità, o persino un accordo israelo-palestinese. Dal punto di vista dei palestinesi, l’unica soluzione possibile prevede che la comunità internazionale imponga a Israele la totalità delle loro rivendicazioni. Di più. Il comportamento dei palestinesi nel corso degli anni ci dice che la stabilità e lo sviluppo economico non figurano nella loro lista di priorità e che, anzi, una situazione di precarietà e di costante afflizione serve assai meglio ai loro obiettivi nazionali e politici.

(Da: Israel HaYom, 23.6.19)

Scrive David Horovitz su Times of Israel: Si potrebbe leggere il piano Usa “pace per la prosperità” come una lettera indirizzata ad Abu Mazen della Casa Bianca di Donald Trump e intitolata: “Ecco cosa state per buttare via”. L’amministrazione americana dice: potete cooperare con noi, e con altri soggetti intenzionati a fare la loro parte, e culminare in quello che il paragrafo d’apertura del piano descrive e appoggia come “l’impegno storico dei palestinesi a costruire un futuro migliore per i loro figli”. Oppure, potete negare al vostro popolo questa opportunità unica. Un messaggio al quale Abu Mzen, l’uomo che ha scelto di lasciar cadere anche l’insuperabile offerta di stato indipendente avanzata nel 2008 dall’allora primo ministro israeliano Ehud Olmer, ha già risposto, come prevedibile, con un sonoro: “Va’ all’inferno”.
(Da: Times of Israel, 23.6.19)