Tagliare gli aiuti, per il bene dell’economia palestinese

E' tempo che i paesi donatori mandino gli aiuti in Africa e non alle forze di sicurezza palestinesi.

Da un articolo di Sever Plocker

image_1134Cosa vi ricorda il titolo di giornale “Autorità Palestinese sull’orlo del collasso economico”? A me ricorda centinaia di titoli simili apparsi sui mass-media sin da quando l’Autorità Palestinese venne istituita, nel 1994.
Quando venne firmata la Dichiarazione di Principi fra Israele e Olp (13 settembre 1993), si riunì a Washington una “conferenza di paesi donatori verso l’Autorità Palestinese”. La conferenza si riunì su ispirazione del governo israeliano e fu organizzata da Shimon Peres, allora ministro degli esteri del governo Rabin. Vi parteciparono potenze industrializzate e ricchi paesi arabi. La conferenza varò un gigantesco programma di aiuti ai palestinesi nell’ordine dei cinque miliardi di dollari.
Da allora in poi l’Autorità Palestinese ha continuato a ricevere aiuti stranieri a livelli senza precedenti nella storia rispetto al prodotto e al reddito generato dai palestinesi. L’aiuto elargito finora tocca i dieci miliardi di dollari, cifra che in proporzione fa impallidire il Piano Marshall di aiuti americani all’Europa dopo la seconda guerra mondiale così come il piano di soccorso economico alla Serbia dopo la guerra civile.
Considerando la cosa a posteriori, quell’aiuto fu un colossale errore. Esso esentò la dirigenza palestinese da qualunque responsabilità per lo sviluppo e il benessere economico della sua gente, responsabilità che fu interamente riversata sulle spalle della comunità internazionale, Israele compreso. I generosi aiuti trasformarono l’Autorità Palestinese in una sorta di creatura monca, priva della vera volontà di diventare stato indipendente, abituata a risolvere ogni problema interno andando a elemosinare donazioni da altri. L’amministrazione palestinese imparò a disinteressarsi di ogni considerazione economica. La burocrazia palestinese crebbe in misura mostruosa, il ceto impiegatizio divenne profondamente corrotto, furono creati cinque-sei enti per la sicurezza in competizione fra loro, finché l’Autorità Palestinese si ritrovò gravata da deficit pesanti e persistenti.
I soldi che arrivavano con facilità venivano spesi con altrettanta facilità. Nelle aree dell’Autorità Palestinese vennero avviate decine di progetti inutili, mai completati. Alti funzionari dell’Olp aprirono fondi provati dove vennero incanalati i denari degli aiuti internazionali, sfuggendo a ogni controllo dei donatori. Ad oggi l’Autorità Palestinese non ha ancora introdotto un sistema decente per aggiudicare gli appalti pubblici, e non ha dotato i suoi uffici di software capaci di effettuare la minima sorveglianza sulle performance di bilancio. D’altra parte, perché mai avrebbe dovuto predersi la briga di farlo? L’Autorità Palestinese è diventata dipendente dall’aiuto straniero come da una droga.
Yasser Arafat, prima di ritrovarsi recluso alla Mukata di Ramallah, trascorreva le sue giornate in lamentose missioni presso i partner donatori stranieri, dove suonava sempre la stessa musica: “L’Autorità Palestinese è sull’orlo del collasso economico, non ci sono abbastanza soldi per pagare le forze di sicurezza per cui il terrorismo imperverserà”, e altre minacce del genere.
Nel 1996, solo tre anni dopo l’avvio del processo di Olso, Peres e Arafat corsero dai capi dei paesi donatori chiedendo di istituire fondi d’emergenza per l’aiuto ai palestinesi giacché l’aiuto normale “non era abbastanza” e l’Autorità Palestinese “stava esaurendo i soldi per pagare gli stipendi”. La posizione del questuante divenne l’atteggiamento abituale di Arafat, e ora quello di Mahmoud Abbas (Abu Mazen).
Israele ha sbagliato quando ha dichiarato la guerra economica ai palestinesi negando loro il gettito delle tasse riscosse su merci palestinesi. Quei soldi non sono aiuti, e non appartengono a Israele. Ma Israele ha sbagliato anche quando si è assunto il ruolo di tutore dell’aiuto internazionale all’economia palestinese.
Per sostenere l’eterna richiesta di aiuti, sono state contraffatte le cifre fondamentali dell’economia palestinese. Quando scoppiò l’intifada (autunno 2000) ci venne detto che una delle sue ragioni era “il fatto che i palestinesi non godevano dei frutti degli accordi di Oslo”. Le cifre ufficiali dell’amministrazione palestinese, e quelle delle istituzioni economiche internazionali che si basavano su dati palestinesi, indicavano a quell’epoca una crescita zero pro capite fra il 1995 e il 2000. Coloro, come il sottoscritto, che dissero che quelle cifre avevano l’aria di essere manipolate vennero accusati a loro volta di voler mascherare la realtà. Ma poi, guarda un po’, quando l’intifada giunse al suo apice e fu interesse dell’Autorità Palestinese enfatizzare le distruzioni subite, ecco che le cifre vennero corrette retroattivamente. Quella che era stata la crescita zero nei terribili anni di Oslo divenne improvvisamente una crescita dell’8% all’anno, con un picco di prosperità raggiunto proprio alla vigilia dell’intifada.
La cosa si è ripetuta nel 2005. I palestinesi, e con essi la Banca Mondiale, hanno pubblicato cifre spaventose circa una drastica riduzione del reddito palestinese pro capite anche negli anni in cui l’intifada stava declinando, cioè nel 2003 e 2004. Questa volta però la Banca Mondiale considerò con sospetto questi dati e prese l’iniziativa di rifare i conti, dopodiché i suoi economisti annunciarono che negli anni 2003 e 2004 il reddito pro capite dei palestinesi nei territori era cresciuto in media dell’8,5%.
Cosa aveva generato quella crescita? Non l’aiuto internazionale, che in quegli anni si era considerevolmente contratto, bensì la fine dell’intifada, la caduta del livello di terrorismo e, di conseguenza, la riapertura del mercato del lavoro israeliano ai pendolari palestinesi, l’incremento delle esportazioni dall’Autorità Palestinese verso Israele e l’Europa e i primi cenni di investimenti stranieri.
Ma già nel 2005 ci fu una la marcia indietro. Il governo palestinese aumentò gli stipendi dei suoi impiegati di dieci punti percentuale, nel quadro di una classica manovra di economia elettorale. Poteva permetterselo perché i paesi donatori avevano riaperto i cordoni della borsa. Dopotutto, volevano che il disimpegno dalla striscia di Gaza avesse successo. E così lo scorso autunno vennero elargiti ai palestinesi 1,3 miliardi di dollari, un record assoluto nella storia dell’economia palestinese.
La Banca Mondiale, che coordina gli aiuti, è convinta che l’aiuto dei paesi donatori abbia prevenuto una terribile catastrofe umanitaria nell’Autorità Palestinese, quando decine di migliaia di lavoratori palestinesi hanno perso da un giorno all’altro i loro impieghi in Israele e i territori palestinesi erano fatti a fette da una stretta rete di posti di blocco delle Forze di Difesa israeliane. Se non fosse stato per i paesi donatori, scrivono gli economisti della Banca Mondiale, la vita nell’Autorità Palestinese sotto occupazione israeliana sarebbe diventata insostenibile. Quadro abbastanza corretto, al momento in cui venne scritto. Ma non risponde alla domanda cruciale: non è che magari gli illimitati aiuti internazionali di fatto hanno offerto sostegno a decisioni politiche palestinesi rovinosamente sbagliate e fatali? Non è che magari i palestinesi si sarebbero comportati diversamente, in alcuni passaggi decisionali decisivi, se non avessero potuto contare sempre sui paesi donatori? Si può presumere che sia così. Cioè è ragionevole presumere che, grazie alla costante protezione del denaro dei paesi donatori, elementi estremisti e “rivoluzionari” nell’Autorità Palestinese si siano potuti permettere scelte politiche nazionali irresponsabili, che hanno procurati ai palestinesi a una serie di disastri.
Non dovendo render conto responsabilmente dell’economia palestinese, l’amministrazione Arafat poté fare a meno di combattere le organizzazioni terroristiche (in nome dell’”unità nazionale”) e persino incoraggiare e incentivare l’intifada senza alcuna considerazione per il suo pesantissimo prezzo economico. Dopotutto, Arafat sapeva che poteva sempre andare a piangere amaramente sulla spalla della comunità internazionale e ricevere aiuti. Dopotutto, la responsabilità non era sua.
A causa dell’enorme aiuto sempre disponibile, quella che è emersa fra i palestinesi non è una classe media, bensì una nomenclatura marcia e corrotta: funzionari governativi nominati dal partito di governo, in questo caso Fatah.
A causa dell’aiuto straniero, gli investitori privati si sino guardati dall’entrare nei territori palestinesi anche nei periodi in cui erano più calmi. È un’alternativa ben nota: dall’estero, o ricevi aiuti o ricevi investimenti. Gli inventori stranieri scoprirono l’India solo quando l’India scomparve dalla lista dei paesi che implorano l’aiuto straniero.
A causa dell’aiuto, quasi tutto pubblico, il settore business palestinese è restato soffocato e senza voce. C’è solo un’industria che ha funzionato bene, da quando è nata l’Autorità Palestinese: il settore bancario finanziario. Anche negli anni del terrorismo dell’intifada, le banche palestinesi hanno continuato a fare a affari quasi normalmente. Come è potuto accader un tale miracolo? Semplice: era il settore dove l’amministrazione palestinese non aveva accesso, un settore che non riceveva un centesimo di aiuti stranieri e che era completamente gestito da privati. Se i paesi donatori avessero contenuto l’ammontare di aiuti elargiti ai palestinesi, oggi il reddito palestinese pro capite sarebbe il doppio di quello che è.
Mi è tornata in mente tutta la triste vicenda dell’economia palestinese questa settimana quando ho letto i commenti di James Wolfensohn, già presidente della Banca Mondiale, da un anno inviato economico speciale del Quartetto (Usa, Ue, Russia e Onu) per il disimpegno e il coordinamento coi palestinesi. Parlando alla Commissione relazioni estere del Senato americano, Wolfensohn ha messo in guardia contro i rovinosi effetti di una cessazione delle donazioni all’Autorità Palestinese. Secondo lo scenario più cupo della Banca Mondiale, l’economia palestinese subirà quest’anno una contrazione del 25%, la disoccupazione schizzerà al 40% e la povertà si estenderà fino a interessare due terzi della popolazione palestinese. Guardando a questi numeri, Wolfensohn valuta che la pressione economica internazionale sull’Autorità Palestinese non indebolirebbe il sostegno a Hamas, ma anzi lo rafforzerebbe. Wolfensohn paventa un collasso dei servizi essenziali, come istruzione e sanità. E chi ne porterebbe la responsabilità? Di nuovo, non l’amministrazione palestinese, non il governo Hamas, e neanche coloro che hanno votato Hamas, bensì i paesi donatori. E Israele.
Pertanto Wolfensohn chiede che gli aiuti non vengano tagliati. Sbaglia. Chiunque desideri il bene dei palestinesi – gente che lavora sodo, istruita e intraprendente – deve chiedere non che gli aiuti all’Autorità Palestinese vengano aumentati, ma anzi che vengano severamente ridotti. La vittoria elettorale di Hamas ha solo dimostrato che gli aiuti sono vani. È tempo che i palestinesi prendano nelle loro mani il loro destino. È tempo che le valutazioni economiche entrino a far parte a pieno a titolo del quadro dei loro interessi nazionali strategici. Finché l’economia palestinese resterà un’economia infantile che il mondo continua a imboccare, continuerà anche l’occupazione israeliana. Anziché chiedere maggiori aiuti, Wolfensohn dovrebbe proporre il contrario: cancellare l’ente inutile Paesi Donatori all’Autorità Palestinese. Sì, è tempo che i paesi donatori spediscano i loro aiuti all’Africa affamata, e non alle “forze di sicurezza” palestinesi”.

(Da: YnetNews, 20.03.06)

Nella foto in alto: l’autore di questo articolo