Tempo dunità nazionale

Un governo guidato da Sharon, Lapid e Peres rappresenterebbe la solida maggioranza dellopinione pubblica e sarebbe assai difficile delegittimarlo.

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_216Dopo che il piano di separazione del primo ministro israeliano Ariel Sharon è stato respinto in un referendum del suo stesso partito pur godendo, a quanto pare, dell’appoggio dell’opinione comune della maggioranza degli israeliani, l’attenzione politica si è spostata sull’ipotesi di un governo di unità nazionale. Molti, sia tra i dirigenti laburisti che fra i dirigenti del Likud, si oppongono a questa ipotesi. Non siamo d’accordo. Dal corso degli eventi che si sono succeduti dall’autunno 2000 in poi, emerge che un governo di unità nazionale è fattibile, utile e persino necessario.
Prima di tutto, ripensando al governo di unità guidato da Sharon nel 2001-02, vorremmo ricordare a coloro che preferiscono dimenticarsene, che fu proprio quella configurazione politica che lanciò l’Operazione Scudo Difensivo, oggi diffusamente considerata il punto di svolta dopo il quale i palestinesi hanno perso l’iniziativa strategica nella guerra terroristica da loro scatenata nel settembre 2000.
Non è un caso. La storia dimostra che nei momenti chiave e nelle prove più difficili, Israele dà il meglio di sé con governi di unità nazionale. Fu così nel 1967, quando il governo di Levi Eshkol aprì al Gahal di Menachem Begin e la Rafi di Moshe Dayan. Il fatto stesso di unirsi rese chiaro all’opinione pubblica che la gravità del momento era unica e che i leader erano all’altezza della situazione.
Accadde una seconda volta nel 1984, quando Shimon Peres e Yitzhak Shamir riuscirono a mettere da parte le differenze e a formare un governo che alla fine seppe sconfiggere l’iperinflazione.
Viceversa, la mancanza di un governo di unità nazionale nella primavera del 1982, quando un governo guidato dal Likud si imbarcò nell’invasione del Libano, e nell’autunno del 1993, quando un governo guidato dai laburisti firmò gli Accordi di Oslo, finì col produrre gravissime lacerazioni interne, che portarono questa fragile società pericolosamente vicina alla guerra civile.
Che il momento attuale sia della stessa portata è fuori discussione. La prospettiva di uno sgombero di insediamenti in generale, e in particolare di uno sgombero come mossa unilaterale, rende altissime le probabilità di una nuova lacerazione interna. Questo non è un momento in cui Israele può permettersi di essere politicamente diviso. Un governo guidato da Ariel Sharon (Likud), Tommy Lapid (Shinui) e Shimon Peres (laburisti) rappresenterebbe la solida maggioranza dell’opinione pubblica e sarebbe assai difficile delegittimarlo anche nel momento delle scelte politiche più difficili. […]
Gli oppositori del governo di unità nazionale dicono che sarebbe un governo inefficiente. Ciò potrebbe essere vero se Sharon non avesse attraversato il Rubiconde, impegnandosi con un piano che ora ha l’appoggio suo, ma anche degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. Sharon il piano l’ha presentato, ed è un piano che può rendere gestibile il conflitto, soprattutto considerando che l’autore è Sharon, il vero architetto della politica degli insediamenti post-67.
E questa è anche la risposta a coloro che, all’interno del partito del primo ministro, lo accusano d’aver abbandonato i suoi principi e d’aver ingannato i suoi elettori. In realtà Sharon non ha ingannato nessuno. Andando al Comitato centrale del suo partito, ben prima delle ultime elezioni, a chiedere di votare a favore di uno stato palestinese, Sharon mise in chiaro che intendeva cedere terra e insediamenti. Altrimenti dove e come sarebbe potuto sorgere quello stato? Fu sulla base di questa piattaforma che Sharon si presentò alle elezioni (nel gennaio 2003). Nonostante e, in molti casi, grazie a quella chiara presa di posizione, Sharon ottenne una schiacciante vittoria elettorale.
Insieme ai laburisti, non solo il piano di Sharon sarebbe più facile da realizzare, ma renderebbe anche i laburisti partner dell’approccio unilaterale, ammettendo implicitamente che il tempo della retorica e delle politiche per la “pace subito” sono tramontate con gli anni novanta.

(Jerusalem Post, 24.05.04)