Tra Mumbai e Tel Aviv

La nuova leadership israeliana dovrà fare una valutazione strategica della stessa portata del 1993

di Ari Shavit

image_2335È eccessivo paragonare l’attacco a Mumbai del 6 novembre scorso con quello a New York dell11 settembre 2001. A Mumbai sono state uccise centinaia di persone, a New York migliaia. Mumbai è una città del terzo mondo bersagliata dal terrorismo, New York è la superba e compiaciuta capitale del mondo sviluppato. A Mumbai sono stati colpiti due hotel e una foresteria ebraica, a New York è stato fatto crollare il simbolo iconico dell’occidente, della sua forza e della sua ricchezza.
Detto questo, tuttavia, nel paragone tra 26 novembre e 11 settembre c’è del vero. In entrambi i casi, sia a Mumbai che a New York, si è svelata una combinazione senza precedenti di fanatismo islamista ed efficienza devastante. In entrambi i casi, paesi musulmani alleati con l’occidente si sono rivelati veri e propri vivai del terrorismo più “evoluto”. Sia Mumbai 2008 che New York 2001 hanno svelato al mondo che, sotto la silenziosa superficie dell’Arabia Saudita e del Pakistan, sono in corso processi profondi e pericolosi che potrebbero trasformare l’ordine mondiale in un disordine di inusitata violenza.
Il terrorismo a Mumbai presenta un risvolto operativo immediato: gli estremisti islamisti posseggono capacità militari da forza d’élite, che li mettono in condizione di colpire popolosi centri abitati con audacia agghiacciante. Ma quell’attacco ha anche un significato strategico: il Pakistan si sta trasformando in un chiaro e concreto pericolo internazionale. Il regime di Islamabad resta “moderato”, ma è sempre più atrofico. Il suo corrotto establishment filo-occidentale sta perdendo il controllo su larghe parti del paese e su componenti cruciali della struttura di potere pakistana. Dal momento che il Pakistan è una potenza nucleare dotata di decine di armi atomiche, questa perdita di controllo potrebbe avere conseguenze a vasto raggio.
La scorsa settimana una decina di terroristi ha messo in ginocchio una metropoli di dodici milioni di abitanti. La morte che hanno seminato è stata dolorosa e scioccante. Ma quello che è veramente allarmante, nell’attentato perpetrato con grande preparazione, è ciò che esso rappresenta: il diffondersi delle competenze militari occidentali fra le forze della jihad attive in Pakistan. Se dovesse verificarsi un analogo passaggio di capacità strategiche militare occidentali nelle forze della jihad a livello globale il mondo ne uscirebbe stravolto: un mondo minacciato tanto dal caos pakistano quanto dagli ayatollah iraniani.
Sul Pakistan, non c’è da farsi troppe illusioni. Nessuna operazione segreta del Mossad potrebbe differire la minaccia, nessun raid aereo potrebbe bloccarla. Forse la minaccia passerà da sola. Forse la situazione verrà risolta da forze stabilizzatrici interne al sub-continente indiano. Barack Obama e Hillary Clinton potrebbero prendere una vigorosa iniziativa che scacci l’incubo. Ma gli eventi del 26 novembre agli hotel Oberoi e Taj Mahal e al centro ebraico Chabad dimostrano che il vulcano pakistano è attivo e fumante.
Quando Yitzhak Rabin e Shimon Peres andarono a Oslo, nel 1993, a stringere la mano a Yasser Arafat lo fecero in gran parte perché avevano visto in anticipo la minaccia strategica posta dall’Iran: volevano porre fine al conflitto con i palestinesi e con il mondo islamico prima che il conflitto con l’estremismo islamista diventasse insostenibile. Peres e Rabin avevano visto giusto, ma altresì sbagliarono: i loro sforzi non posero fine alla conflittualità in casa, ed anzi la incrementarono di parecchio.
La nuova leadership israeliana che salirà al governo con le elezioni del prossimo marzo dovrà fare una valutazione strategica della stessa portata di quella fatta nel 1993. L’Iran sarà ancora una volta al centro dell’analisi, ma questa volta vi entrerà anche il Pakistan con un ruolo centrale.
Il mondo islamico è in movimento. Alcuni cambiamenti suscitano speranze: l’Iraq si sta stabilizzando, la Siria prende in considerazione la pace, il Golfo è più moderato e i sunniti cercano interlocutori. Altri sviluppi, invece, sono assai preoccupanti: l’ascesa dell’islam sciita, il deficit di bilancio iraniano e l’inquietudine in Pakistan annunciano tempesta. Non occorre farsi prendere dal panico, ma neanche stare fermi a guardare.
Le nuove dimensioni delle minacce incombenti devono stimolare un cambiamento generale del pensiero politico israeliano. Dove la pace è possibile, si dovrebbe pagare quasi qualunque prezzo pur di raggiungerla. Dove non è possibile, la cosa va innanzitutto riconosciuta; e vanno ben capite tutte le implicazioni di tale squilibrio. Allo stesso tempo bisogna prestare attenzione alle strutture di governo e ai codici di valori di questo paese, nella nuova era che si apre. Israele si trova sulle rive di un oceano che può essere calmo, ma può anche sollevare enormi tsunami. Il prossimo governo dovrà rafforzare la sicurezza di questo stato “costiero”. Il modo per farlo è sia perseguire una pace autentica, sia diventare più forti, aumentare l’altezza delle barriere anti-burrasca e attrezzarsi per quel che può arrivare.

(Da: Ha’aretz, 4.12.08)

Nella foto in alto: Ari Shavit, autore di questo articolo