Tracciare un confine fra critica e delegittimazione

Solo così il discorso politico può avvicinare, anziché allontanare, una soluzione equa del conflitto

di Calev Ben Dor

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Nell’immagine in alto: Le campagne contro il presunto “apartheid israeliano” mirano apertamente all’abolizione dello Stato d’Israele, come mostrano le cartine geografiche regolarmente impiegate

A parte i loro nomi che suonano così tipicamente ebraici, a prima vista c’è ben poco in comune fra Hagai Ben-Artzi e Naomi Klein. Hagai Ben-Artzi, cognato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, è un paladino del movimento per gli insediamenti. Naomi Klein è una infiammata fautrice della “settimana contro l’apartheid israeliano” e della campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele.
Eppure due recenti episodi suggeriscono l’idea che alcune loro posizioni possano rappresentare le facce differenti di una stessa medaglia. A fine marzo, discutendo degli attuali disaccordi fra Israele e Stati Uniti sulle licenze edilizie nel quartiere Ramat Shlomo di Gerusalemme, Hagai Ben-Artzi ha definito il presidente Barack Obama un “antisemita”. Lo stesso giorno Naomi Klein difendeva la propria posizione favorevole alla “Apartheid Week” e alla campagna per sanzioni e boicottaggio contro Israele sostenendo che qualunque tentativo di definirla una “delegittimiatrice” di Israele è una “pura e semplice menzogna”. Benché entrambi siano personaggi assai popolari nei rispettivi campi, sembrano difettare tutti e due di qualche sottigliezza quando si tratta di discutere ragioni e torti del conflitto israelo-palestinese. Per l’uno, tutte le critiche a Israele – anche se mosse dal leader del più vicino alleato – sono antisemite e illegittime. Per l’altra, tutte le critiche a Israele – anche quando adottano parola come apartheid e genocidio – sono un discorso politico perfettamente legittimo. Per l’uno, tutto è delegittimazione di Israele; per l’altra, non lo è nulla. Manca in entrambe le filosofie la linea che separa la critica delle politiche israeliane, che è legittima, dal sabotarne e delegittimarne l’esistenza stessa, che legittimo non è.
A differenza del celebre pronunciamento dell’ex giudice della Corte Suprema americana Potter Stewart riguardo alla pornografia, della delegittimazione non è sempre possibile dire: non so definire cos’è, ma quando la vedo la riconosco. La linea che separa critica e delegittimazione viene spesso intenzionalmente offuscata. Anzi, tale offuscamento ha permesso ai delegittimatori – che di per sé godono di scarso sostegno – di spingere grandi quantità di critici a sostenere posizioni sempre più estreme. Il loro successo nel promuovere il paradigma di una soluzione “ad un unico Stato” (delegittimando Israele in quanto tale), nel momento in cui i negoziati israelo-palestinesi sulla soluzione “a due Stati” rimangono in stallo, costituisce una minaccia strategica che potrebbe diventare nel prossimo futuro una seria minaccia all’esistenza stessa d’Israele. Per contrastare tale tendenza, e indebolire i delegittimatori, è essenziale che i sostenitori di una soluzione equa per entrambe le parti stabiliscano un confine netto fra la critica alla politica israeliana da una parte, e la delegittimazione della sua stessa esistenza dall’altra.
Nonostante le difficoltà insite nel definire esattamente dove finisca una e inizi l’altra, non basta certo accontentarsi della frusto sofisma secondo cui “ciò che per uno è critica per l’altro è delegittimazione e viceversa”. In realtà diverse persone e organizzazioni – come Irwin Cotler, Natan Sharansky e la All-Party Parliamentary Inquiry into Anti-Semitism guidata dal parlamentare britannico Denis MacShane – hanno indicato linee guida operative che tornano utili nel fissare chiari paletti. Benché diversi per contenuti e forma, vale la pena trarre una sorta di comun denominatore dai lavori di Cotler, Sharansky e MacShane per enucleare quali siano gli elementi di fondo che, quando presenti in una “critica”, possono essere spia del suo passaggio a “delegittimazione”.
Il primo e forse più ovvio elemento è l’uso della tradizionale fraseologia antisemita – come “assetati di sangue”, “assassini di bambini”, “controllo dei mass-media” – quando si discute dei comportamenti di Israele.
Una seconda spia è l’uso di un lessico che demonizza Israele in quanto Stato nazista o da apartheid. Come ha scritto Cotler, “si tratta di due dei peggiori mali del XX secolo: se Israele è colpevole di questi crimini contro l’umanità, ne consegue che non ha diritto di esistere”.
Un altro elemento è negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, sia che lo si faccia appoggiando un totale diritto dei profughi palestinesi a insediarsi in Israele, sia promuovendo attivamente la soluzione ad un unico Stato, sia sostenendo che il sionismo è per definizione un’impresa razzista.
Un ultimo elemento ruota attorno all’applicazione di un doppio standard, selezionando un Paese tra tutti gli altri per muovergli critiche sproporzionate rispetto a cose che ragionevolmente si mette in conto che faccia qualunque altro paese della famiglia delle nazioni, nelle stesse condizioni.
Non è necessario esser d’accordo su tutto per immaginare come dovrebbe apparire un discorso politico che adottasse questi criteri. Si può esprime disaccordo sulle tattiche delle Forze di Difesa israeliane a Gaza senza paragonarle al ghetto di Varsavia del 1941, e si posso valutare le azioni israeliane confrontandole con analoghe azioni americane o della Nato in aree civili densamente popolate. Si può discutere il forte sostegno di cui gode Israele negli Stati Uniti senza evocare i disegni della “finanza ebraica” o teorie cospirative. Si possono discutere il percorso della barriera di sicurezza, la politica d’Israele rispetto ai suoi cittadini arabi e il modo per bilanciare il carattere ebraico e il carattere democratico d’Israele senza scagliare parole come razzismo e apartheid,
Anche coloro che sono più comprensivi verso le ragioni d’Israele hanno da fare la loro parte. La reazione della Gran Bretagna all’uso di passaporti falsificati nell’uccisione di Mahmoud al-Mabhouh in Dubai può essere considerata ingiusta e ipocrita, ma questo non ne fa una reazione antisemita. Le critiche alla politica degli insediamenti possono essere anche molto dure, ma questo non significa che siano antisioniste (esse anzi riflettono una legittima posizione assai diffusa all’interno del pensiero sionista).
Stabilire questi paletti non è un mero esercizio di semantica politicamente corretta ad opera di coloro che sperano di poter togliere il veleno estremista dalle chiacchiere politiche. In un momento in cui lo status internazionale di Israele si va erodendo e il movimento per la delegittimazione della sua stessa esistenza e per la promozione di uno stato “bi-nazionale” (ovviamente arabo) si allarga sempre, diventa essenziale, per coloro che sostengono la critica aperta e leale di entrambe le parti, esigere che il discorso politico renda una soluzione giusta e pacifica del conflitto più, e non meno, probabile.

(Da: Jerusalem Post, 1.4.10)