Tre missili di troppo

Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova

Editoriale del Jerusalem Post

L’abitazione israeliana nel moshav Mishmeret centrata dal missile palestinese di lunedì scorso

Pochi mesi fa, lo scorso ottobre, l’idea corrente in Israele era che al paese fosse stata risparmiata un’altra guerra contro Hamas a Gaza grazie alla rapidità di riflessi e alla prontezza di reazione di una madre di Beersheba. Non appena suonarono le sirene d’allarme, la donna balzò fuori dal letto e raccolse i suoi tre bambini nell’unica stanza della casa a prova di razzo. Quando ne uscirono, della loro casa rimaneva ben poco. Se, al contrario, avessero subito gravi ferite o peggio, Israele non avrebbe avuto altra scelta che reagire duramente, nonostante l’inevitabile escalation che avrebbe fatto seguito. Così stando le cose, invece, il governo ordinò una risposta estremamente limitata su alcuni obiettivi di Hamas a Gaza in base alla politica di auto-contenimento che Israele applica ogni volta che è possibile. Hamas, dal canto suo, dichiarò che i razzi erano partiti accidentalmente “a causa di un fulmine”.

Lo scorso 14 marzo altri due missili a lunga gittata sono stati lanciati da Gaza, questa volta verso l’area metropolitana di Tel Aviv, la “capitale economica” d’Israele. Il giorno dopo, le Forze di Difesa israeliane decidevano di prendere per buona la spiegazione di Hamas secondo cui i missili erano stati sparati “per errore”. Fortunatamente nessuno aveva riportato lesioni fisiche e questo permetteva al governo di adottare nuovamente una risposta contenuta.

Nelle prime ore della mattina di lunedì scorso, da Gaza è stato lanciato un altro missile a lunga gittata che questa volta ha colpito in pieno un’abitazione nel villaggio agricolo di Mishmeret, nel centro di Israele. Ancora una volta, la reazione rapida ha salvato la famiglia, che è riuscita a raggiungere la “zona sicura” della casa. Sette persone sono state portate in ospedale con ferite di varia entità, ma non gravissime. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha saggiamente deciso di interrompere la sua visita a Washington e di rimpatriare subito dopo l’incontro con il presidente Donald Trump, rinunciando a parlare di persona alla conferenza di AIPAC (American Israel Public Affairs Committee).

Miri Tamano e due suoi figli, scampati al razzo palestinese che lo scorso ottobre ha centrato la loro abitazione a Beersheva

Purtroppo, il missile sul moshav Mishmeret non è l’unico attacco alla sicurezza originato da Gaza. I residenti israeliani del Negev occidentale, vicino ai confini con la striscia di Gaza, continuano a subire attacchi notte dopo notte, compresi gli aerostati carichi di esplosivo. Anche i soldati delle Forze di Difesa israeliane schierati lungo il confine sono da tempo bersaglio di attacchi quotidiani da oltre la barriera di sicurezza. Come non bastasse, domenica scorsa alcuni terroristi di Hamas detenuti in un carcere israeliano hanno aggredito e ferito a pugnalate due agenti di guardia utilizzando armi artigianali. È difficile non vedere in questa sequenza una deliberata escalation voluta da Hamas, e in particolare dal suo capo a Gaza, Yahya Sinwar.

Israele non può permettersi di rimanere inerte. Applicare la politica di auto-contenimento al “terrorismo degli aquiloni”, lo scorso anno, ha portato solo ad attacchi sempre più minacciosi che ora comprendono anche ordigni esplosivi appesi a grappoli di palloni. Migliaia di ettari di terra, compresi campi, riserve naturali e boschi, sono stati bruciati in questo modo: un vero e proprio terrorismo economico e ambientale. Tollerare lo stillicidio di attacchi nella regione attorno a Gaza per evitare un’escalation non ha fatto che incoraggiare Hamas e Jihad Islamica. I raduni di massa al confine, in cui migliaia di palestinesi lanciano oggetti in fiamme oltre il recinto e creano letteralmente una nera cortina di fumo inquinante al riparo della quale tagliano le recinzione di confine per aprire la strada a infiltrazioni terroristiche, sono un evento che si va ripetendo con scadenza settimanale da un anno. Sotto l’ingannevole slogan della “grande marcia del ritorno”, i palestinesi di Gaza hanno eroso settimana dopo settimana la sovranità israeliana. Ed è previsto che queste azioni vadano aumentando da qui fino alla “Giornata della terra” del 31 marzo.

Il primo ministro israeliano non vuole rischiare di portare il paese in un’altra guerra con Gaza, men che meno a due sole settimane dalle elezioni. Ma è chiaro che qui ci vuole un’azione energica. Non si può continuare a confidare nei “miracoli” al centro del paese e nella stoica resilienza degli abitanti del sud. Ancora una volta Israele ha constatato che, se gli abitanti del sud non possono vivere e dormire in sicurezza, gli abitanti del resto del paese non sono in una situazione molto diversa.

La comunità internazionale dovrebbe sostenere Israele nella sua risposta. Invece di chiedergli sempre moderazione e auto-controllo, dovrebbe affermare chiaro e forte che gli attacchi di Hamas da Gaza – dagli aerostati esplosivi artigianali ai missili d’importazione a lungo raggio – sono semplicemente inaccettabili. È ora di smetterla di offrire giustificazioni a Hamas e di fermare gli attacchi. La deterrenza non deriva solo da parole energiche, ma anche da condotte energiche.

(Da: Jerusalem Post, 26.3.19)

Eran Lerman

Ad un osservatore che venisse da un altro pianeta – scrive Eran Lerman su Israel HaYom – la condotta della dirigenza di Hamas apparirebbe come una totale follia, paragonabile a quella di un visitatore allo zoo che entrasse nella gabbia dei leoni, o che vi mandasse suo figlio, munito solo di un grosso bastone per colpire i leoni e vedere cosa succede. C’è una sorta di “auto-razzismo” in questa aspettativa che il mondo giustifichi sempre i palestinesi come gente fondamentalmente non responsabile delle proprie azioni, anche nel momento in cui sparano di nuovo un missile sulla popolazione nel cuore d’Israele.

Provocare in questo modo una potenza militare come Israele, senza alcuna possibilità di ottenere nulla di significativo sul piano strategico, è un atto di sfida il cui unico scopo è evidentemente quello di mostrare al mondo d’essere disposti a tutto. In realtà, il capo di Hamas Yahya Sinwar e la sua coorte, che in base alla loro logica credono che aumentare le tensioni fino al limite sia una mossa intelligente, presto capiranno d’aver fatto un passo falso cruciale. Evidentemente il loro obiettivo era quello di accrescere i loro punti di forza nelle trattative che l’Egitto sta mediando, distogliere l’attenzione della popolazione di Gaza dalle recenti manifestazioni anti-Hamas e scagliarsi contro le brutali sanzioni che il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen applica a Gaza nel totale disinteresse per le grame condizioni che impone alla sua stessa gente.

Ma inevitabilmente le Forze di Difesa israeliane saranno chiamate a rispondere in modo più duro del solito: non perché la sicurezza dei residenti nel centro di Israele sia più preziosa di quella degli israeliani che vivono vicino a Gaza, ma a causa dell’impellente necessità di mostrare a Hamas che ha completamente sbagliato i calcoli. Detto questo, lo scopo di tale risposta – una combinazione di azioni armate, atteggiamento militarmente minaccioso e impulso diplomatico egiziano – non deve limitarsi a prevenire ulteriori missili: deve riguardare anche le violenze settimanali al confine, le provocazioni, gli aerostati incendiari e gli ordigni esplosivi regolarmente scagliati contro i soldati israeliani di guardia al confine. Nella situazione attuale è impossibile ottenere questo risultato con la “carota” e le valigie piene di soldi portate dal Qatar.
(Da: Israel HaYom, 26.3.19)