Tutto tranne negoziare sul serio

Abu Mazen ama incolpare Israele dell’impasse negoziale, ma a Ramallah si vanta d’aver negato ogni concessione

Di Zalman Shoval

Zalman Shoval, autore di questo articolo

Zalman Shoval, autore di questo articolo

Al suo ritorno dalla Casa Bianca il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha dichiarato: “Stiamo mantenendo la nostra promessa, noi ci atterremo ai nostri principi, la capitolazione è fuori discussione”. E per non lasciare adito a dubbi circa questi “principi”, ha elencato una serie di rivendicazioni, in parte nuove in parte riciclate: particolarmente degna di nota la richiesta della scarcerazione di Marwan Barghouti, condannato in Israele per aver preso parte personalmente all’assassinio di cinque innocenti, di Ahmad Saadat, il capo del Fronte Popolare per la Liberazione Palestina che progettò l’omicidio del ministro israeliano del turismo Rehavam Ze’evi, e di Fuad Shobaki, ex alto ufficiale della sicurezza dell’Autorità Palestinese condannato per aver organizzato la nave Karine-A intercettata nel 2002 dalla Marina israeliana mentre era in viaggio verso la striscia di Gaza con un carico di 50 tonnellate armi illegali tra cui razzi Katyusha e missili anticarro.

La dirigenza di Fatah, riunita nel palazzo della Muqataa a Ramallah, ha confermato la linea tenuta da Abu Mazen a Washington aggiungendovi le consuete rivendicazioni intransigenti sui temi di Gerusalemme, dei profughi (il cosiddetto “diritto al ritorno” dei loro discendenti) e della “piena sovranità” del futuro stato palestinese (un’espressione che sta a indicare il rifiuto di tutte le esigenze di sicurezza di Israele: stato smilitarizzato, limiti alle alleanze internazionali, garanzie sul controllo dei confini e dello spazio aereo ecc.).

Le armi destinate ai terroristi, sequestrate dalla Marina israeliana sul cargo Karina-A nel 2002

Le armi destinate ai terroristi, sequestrate dalla Marina israeliana sul cargo Karina-A nel 2002

Nabil Shaath, responsabile per le relazioni esterne di Fatah, ha fatto di meglio. In un’intervista con i corrispondenti del Financial Times a Gerusalemme e Ramallah, ha avvertito che i palestinesi stanno pensando di adottare tattiche da “Sudafrica” (vale a dire, delegittimazione totale di quello che dovrebbe essere l’interlocutore con cui fare la pace), ovvero di chiedere alle istituzioni internazionali di applicare sanzioni generalizzate contro Israele come venne fatto contro il Sudafrica razzista. Oltre a chiedere il completo boicottaggio, i palestinesi tornerebbero a rivolgersi alle Nazioni Unite e ad altri organismi internazionali, compresa la Corte Penale internazionale, perché condannino Israele e riconoscano lo stato palestinese senza un accordo di pace con Israele.

Può darsi che Shaath giochi il ruolo del falco e che le sue opinioni non riflettano precisamente quelle di Abu Mazen. Tuttavia sembra dar voce a sentimenti diffusi e radicati in importanti settori di Fatah, che è la base politica del leader dell’Autorità Palestinese. Nella cerimonia d’accoglienza che si è organizzato in anticipo a Ramallah, Abu Mazen si è vantato d’aver resistito, a Washington, “a tutte le condizioni e le pressioni”. In realtà, è difficile capire di che pressioni vada parlando, e quanto forti sarebbero tali pressioni, tanto più che su alcune loro richieste, come il blocco del costruzioni ebraiche al di là della Linea Verde del ’48-’67, gli americani sono schierati sulla posizione dei palestinesi. Sarebbe interessante vedere quali altre esorbitanti pretese avanzerebbero i palestinesi se Israele, giusto per metterli alla prova, decidesse di congelare le attività edilizie ebraiche in Cisgiordania per alcuni mesi, come già fece per quasi tutto il 2010 senza ottenere alcun risultato.

Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) parla alla folla a Ramallah, al suo rientro da Washington

Dal punto di vista della politica interna palestinese, è chiaro che per Abu Mazen è molto conveniente atteggiarsi a colui che ha dovuto resistere con fierezza e coraggio a tremende pressioni. Le schema attualmente all’opera, e ancor più quello che ci si aspetta di vedere dopo il 29 aprile (la scadenza dei negoziati originariamente posta dal Segretario di stato John Kerry), permette ai palestinesi di attenersi al loro obiettivo strategico di sottrarsi (senza darlo troppo a vedere) a veri e propri negoziati conclusivi con Israele, per i quali dovrebbero scendere a patti e accettare compromessi e concessioni: in primo luogo quella di riconoscere Israele come stato nazionale del popolo ebraico, vale a dire riconoscere il diritto di Israele di esistere come tale.

(Da: Israel HaYom, 26.3.14)

Scrive Boaz Bismuth, su Israel HaYom: «L’unica cosa che forse possiamo ricavare dal discorso di martedì del presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen al vertice della Lega Araba in Kuwait è che egli considera la riconciliazione con Hamas molto più importante della riconciliazione con Israele. C’è da dubitare, tuttavia, che questo fosse ciò che aveva in mente il Segretario di stato Usa John Kerry quando, nel marzo dello scorso anno,  avviò la sua attività da spola diplomatica. Kerry mira a varare una pace tra i popoli; Abu Mazen mira, nel migliore dei casi, alla pace tra i suoi. Il suo discorso, in cui ha ribadito (ancora una volta) che l’Autorità Palestinese, come la Lega Araba, non riconoscerà mai Israele come stato ebraico, è risultato particolarmente intransigente. In Kuwait è stato accolto con grande calore, ma a Gerusalemme ha avvalorato le preoccupazioni di chi non lo vede come un interlocutore di pace, anche se viene percepito come “moderato” (rispetto a Hamas)». (Da: Israel HaYom, 26.3.14)