Un altro voto di fiducia

Buffett ha scelto Israele per realizzare il terzo maggior acquisto mai operato dalla sua società dinvestimenti.

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_1201Il fatto che Warren Buffett, il secondo uomo più ricco del mondo dopo Bill Gates, abbia scelto Israele per realizzare il terzo maggior acquisto mai operato dalla sua società d’investimenti Berkshire-Hathaway (acquisendo l’80% della israeliana Iscar Metalworking per 4 miliardi di $ in contanti) non può essere considerato altro che un monumentale voto di fiducia nell’economia israeliana.
Iscar è un’azienda “sabra”, cioè concepita e nata in Israele, interamente nazionale, cresciuta in una terra che mette a dura prova chi si sforza di lavorarvi. Eppure questa sofisticata azienda manifatturiera è scaturita dalla più umili origini, dall’attività di una singola persona, Steff Wertheimer, in un capannone di legno di Nahariya, sino a diventare un attore su scala internazionale, tanto da attrarre l’interesse e i denari di uno degli investitori più avveduti più di successo del mondo. Si tratta di un risultato più grande anche delle meraviglie dell’innovativo hi-tech israeliano, comparse dal niente per poi essere acquistate nel giro di pochi anni dai leader globali del settore. Ma si trattava spesso di pesci piccoli inghiottiti dalle creature più grandi del loro stesso bacino. Iscar, invece, è in se stessa un pesce grosso e l’investimento in essa non ha lo scopo di cancellare un concorrente o di fondersi con esso. La Berkshire-Hathaway vanta un’ampia gama di investimenti diversificati in aziende come la Coca-Cola e la Wells Fargo. Non è un concorrente della Iscar, e intende farla andare avanti.
A quanto risulta, una delle principali condizioni della transazione è che Iscar rimanga in Galilea e che il suo personale non venga ridotto né leso in altro modo dal cambio di proprietà. In sostanza, non vi saranno rivoluzioni nelle attività israeliane di Iscar, a parte l’incalcolabile impulso all’economia israeliana.
L’impulso psicologico è tanto più potente se si considera che uno come Buffett ha scelto proprio Israele, letteralmente a colpo d’occhio (la sua prima visita nel paese è prevista per settembre), per lanciarsi in un investimento all’estero di questa portata, specie in un periodo in cui i pericoli che corre Israele sembrano aumentati. Scommettere su un’economia che è porta-a-porta con l’entità governata da Hamas e potenzialmente minacciata dal nucleare iraniano può riflettere soltanto una grande fiducia nella capacità di Israele di fare fronte a ogni avversità.
Anche l’israeliano della strada, occupato nella battaglia quotidiana per sbarcare il lunario, può sentirsi rincuorato da questo mega-affare, anche se non riguarda direttamente il suo bilancio famigliare. È esattamente ciò che ha fatto la Borsa di Tel Aviv, che ha visto i suoi indici salire improvvisamente appena avuta notizia della transazione, nonostante il fatto che i Wertheimer l’avessero attentamente evitata e a volte sembrasse quasi che se ne facessero gioco. Le implicazioni complessive sono state colte al volo alla Borsa di Tel Aviv anche se Iscar non vi è mai stata quotata.
Quando, cinquantotto anni fa, Israele veniva fondato e lottava per la propria sopravvivenza, ci sarebbe voluta una fantasia particolarmente esaltata per immaginare che un giorno un’industria israeliana avrebbe interessato fino a questo punto i più grandi investitori del mondo.
Ma le nostre ambizioni non devono firmarsi qui. Non è troppo temerario sperare che un giorno aziende israeliani realmente di successo assumano il ruolo di attori principali nel mercato globalizzato restando tuttavia pienamente e inequivocabilmente israeliane. Altre piccole economie l’hanno fatto. La Nokia, ad esempio, è rimasta finlandese. Il marchio del successo israeliano non deve essere necessariamente l’acquisto da investitori stranieri o il trapianto all’estero di manifatture israeliane (i Wertheimer hanno fatto anche questo: posseggono fabbriche in Cina, Polonia, Turchia). Israele deve essere abbastanza attraente da trattenere i suoi investitori qui, dove possono avere successo e restare israeliani.
Ad altri investitori in giro per il mondo non sfuggirà la notizia di questa transizione, e saranno spinti a pensare che, se uno come Buffet considera Israele una “terra di promessa”, anche loro potrebbero fare lo stesso. La nostra sfida sarà quella di mantenere valida quella promessa.
Con tutta la buona volontà, Buffet non è Wertheimer e il suo impegno verso la Galilea dipenderà dai profitti. Comunque, anche se in futuro le considerazioni che guideranno Iscar potranno essere meno orientate su Israele, questa transazione, nell’ipotesi che gli affari continuino ad andare bene, apporterà vantaggi a Israele per parecchi anni a venire.

(Da: Jerusalem Post, 7.05.06)

Nella foto in alto: Warren Buffett, a destra, ed Eitan Wertheimer, chairman of the board della Iscar