Un anno dopo Arafat

Qualche movimento, ma nessun vero grande cambiamento sulla scena palestinese.

Da un articolo di Omri Degan

image_960Questa settimana cade il primo anniversario della morte di Yasser Arafat, e del completo fallimento di tutti i tentativi di decifrare i scenari possibili del “dopo-Arafat”. Un anno fa i commentatori di dividevano fra due eventualità estreme: una considerava la possibilità che l’uscita di scena di Arafat si traducesse nella fine di ogni spargimento di sangue, e magari anche nel raggiungimento di un accordo di pace. L’altra presupponeva al contrario che non vi fosse ragione di aspettarsi alcun vero cambiamento nel futuro prevedibile. Oggi, a un anno di distanza, è possibile assestarsi su una valutazione che sta un po’ a metà fra quelle due posizioni, e chiedersi: cosa è accaduto da allora sulla scena politica palestinese?
Sul piano interno, la morte di Arafat ha marcato l’inizio di una guerra intestina per l’identità palestinese. La più evidente manifestazione di questo è la crescente tensione fra Autorità Palestinese e Hamas. Hamas ha fatto di tutto, nel corso dell’ultimo anno, per affermare la sua parità con l’Autorità Palestinese preservando la propria forza militare indipendente, incrementando la propria rete di servizi sociali autonomi, demarcando zone off limits out per la polizia palestinese, conducendo persino una propria politica estera. Dall’alta parte, l’Autorità Palestinese si è costantemente indebolita. Se in passato Arafat si era rifiutato di usare le forze a sua disposizione per imporre la propria volontà alle fazioni estremiste, al momento il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) si trova di fronte a ben altra sfida. L’ingresso di Hamas nei consigli municipali e la sua prevista partecipazione alle elezioni per il Consiglio Legislativo palestinese minano l’aspirazione di Abu Mazen di rappresentare tutti gli abitanti di Gaza e Cisgiordania, e ledono la sua capacità di smantellare le strutture del terrorismo e di attuare riforme costituzionali. Ciò comporta varie conseguenze politiche.
In primo luogo v’era la diffusa aspettativa che, dopo la morte di Arafat e soprattutto dopo il disimpegno da Gaza, sarebbero cresciute le pressioni su Israele perché negoziasse con la dirigenza palestinese. Questa aspettative è scomparsa. La collera fra i dirigenti palestinesi, che non ha fatto che rafforzarsi dopo il ritiro, permette a Israele di continuare a sostenere che “non c’è nessuno con cui parlare”.
In secondo luogo, Abu Mazen può anche parlare di Road Map, ma in pratica non ha avuto la ventura di attuare nemmeno la prima parte di quel piano, quella che prevedeva il consolidamento degli apparati di sicurezza palestinesi, lo smantellamento delle bande armate e la prevenzione di crescita e produzione di armi da guerra. Abu Mazen ha ignorato anche la seconda parte della Road Map, che prevedeva la creazione di uno stato palestinese con confini provvisori, e propone invece di saltare direttamente alla terza fase, quella secondo cui uno stato palestinese dovrebbe essere istituito dopo la firma di un trattato di pace con Israele.
Gli Stati Uniti, che a suo tempo avevano detto che Arafat era l’ostacolo alla Road Map, sono attualmente impegnati con le vicende in Iraq. Pertanto, nonostante il fatto che Arafat sia ora fuori di scena, non hanno intenzione di dettare nuovi calendari o scadenze a israeliani e palestinesi che coincidano con la fine del mandato del presidente Bush nel gennaio 2009. In pratica questo significa che Bush ha accettato la posizione israeliana secondo cui la palla sta ora nel campo palestinese e tocca ai palestinesi dimostrare che sanno controllare Gaza quale pre-condizione per fare passi avanti. Così facendo, Bush respinge la richiesta di Abu Mazen di spingere fin da subito per colloqui sulle questioni dello status finale, fra cui Gerusalemme, confini e profughi.
Dunque si può affermare che nell’immediato la fine dell’era Arafat non ha cambiato la realtà politica, anche solo per l’intesa fra Stati Uniti e Israele di chiedere fatti concreti prima di andare avanti con negoziati e promesse. Allo stesso tempo le elezioni palestinesi, fissate per il prossimo gennaio, rappresentano una tappa importante in base alla quale sarà possibile vedere se gli amici di Arafat abbiano o meno ostacolato il cambiamento nella politica palestinese e di conseguenza forse anche nel processo diplomatico. Dopo un periodo di decantazione di un anno e due mesi dalla dipartita di Arafat, la piazza palestinese andrà alle urne per decidere del proprio futuro. I tradizionali cento giorni di “luna di miele” dopo l’elezione della dirigenza palestinese serviranno per vedere se stiamo assistendo alla nascita di un soggetto “responsabile”, capace di prendere decisioni e di attuarle per il bene del popolo palestinese. Tale capacità è composta da vari ingredienti, fra cui devono figurare una disponibilità di capitale economico e umano, la legittimazione interna e internazionale, la capacità politica di sopravvivere al potere, la capacità di ratificare decisioni dei rami esecutivo e legislativo nelle istituzioni legali e giuridiche, e la capacità di unire le forze allo scopo di realizzare le politiche del governo. La nascita di un soggetto responsabile non implica necessariamente che i palestinesi debbano manifestare la volontà di assumersi rischi politici o diplomatici, né di voler prendere parte al processo diplomatico. Ciò tuttavia permetterebbe a Israele, nel bene e nel male, di fare i conti con una personalità anziché con differenti enti e gruppi come la vecchia guardia del’Olp, i capi dei vari servizi di sicurezza palestinesi, i Falchi di Fatah, Hamas, la Jihad Islamica, i gruppi di detenuti.
Se, dopo le elezioni, le lotte di potere tra questi gruppi continueranno, non vi sarà soggetto responsabile. Allora potremo concludere che non c’è potenziale negli amici di Arafat. E cioè, ciò che è stato è destinato a ripetersi.

(Da: YnetNews, 10.11.05)