Un mondo imperfetto

Questo mondo imperfetto ha bisogno, talvolta, di leader imperfetti come Sharon.

Da un articolo di Aluf Benn

image_980In un mondo perfetto forse Netzarim non sarebbe mai esistito. Né, forse, gli altri insediamenti e con essi l’enorme prezzo politico ed economico sostenuto da Israele. In un mondo perfetto, Israele la scorsa estate avrebbe festeggiato i cinque anni dall’accordo finale fra Ehud Barak e Yasser Arafat a Camp David. Non vi sarebbero attentati terroristici, uccisioni mirate né barriere di separazione fra israeliani e palestinesi, ma solo reciproco rispetto e fratellanza fra nazioni.
Ma il mondo non è perfetto. Esistono l’odio dei palestinesi e le stragi terroristiche. Esiste l’occupazione israeliana. Esistono l’arroganza e l’ambizione di politici e generali. E decine di insediamenti che sono stati miopemente costruiti, e che ora dovranno essere sgomberati.
Questo mondo imperfetto ha bisogno, talvolta, di leader imperfetti come Ariel Sharon, capaci di prendere delle decisioni e di metterle in pratica, anziché sognare la pace a Ginevra o stare in Svezia a sviscerare i grovigli del diritto internazionale.
Il ritiro da Gush Katif non è stata una favola. Tutt’altro. Israele non ha consegnato ad Abu Mazen le chiavi delle case dei coloni in un cofanetto con un bel nastro, chiedendo perdono per l’occupazione. Non ha nemmeno contribuito alla campagna per la sua elezione. Anzi, Sharon ha lasciato Gaza senza nemmeno sentire il parere dei palestinesi. Non è stato a pensare se lo sgombero serviva agli interessi di Fatah nella sua lotta con Hamas, ma se serviva agli interessi di Israele.
Nel mondo perfetto della sinistra sarebbe stato meglio restare a Netzarim e a Morag finché non fosse stato possibile consegnarli ad Abu Mazen con un accordo, rafforzando il suo regime. Secondo questo approccio, come in un problema di matematica ciò che conta è il procedimento, non il risultato. Ma i leader israeliani vengono eletti per fare gli interessi di Israele, non quelli di Fatah. Netzarim è stato demolito per sbarazzarsi di un peso molesto e superfluo, non per influenzare i risultati delle elezioni nell’Autorità Palestinese.
È triste scoprire che sia la destra che la sinistra israeliana soffrono di una visione stereotipata e superficiale dei palestinesi. Gli avversari dell’accordo di pace li considerano una banda di incorreggibili assassini di ebrei. Dall’altra parte i fan dell’accordo di pace li trattano come se fossero totalmente privi di volontà autonoma e agissero unicamente in reazione ai comportamenti di Israele. Gli stessi esperti che oggi spiegano che la pressione di Israele sull’Autorità Palestinese indebolisce Abu Mazen, solo un anno fa ci dicevano che quella pressione rafforzava Arafat. Allora ci spiegavano che l’incorreggibile ostinazione israeliana non faceva che unire i palestinesi dietro ad Arafat. Oggi ci dicono che essa li disunisce, e che solo gesti generosi potrebbero aiutare. Ma non potrebbe darsi che la debolezza di Abu Mazen sia dovuta anche a ragioni tutte interne, ad esempio carenza di carisma, cattiva gestione, paura del confronto?
Non è una controversia accademica. Dopo le elezioni, sarà sul tappeto il graduale sgombero di circa 60.000 israeliani che vivono negli insediamenti al di là della barriera di sicurezza. Se l’interesse nazionale richiede di tirarli fuori da là sulla base di considerazioni demografiche, politiche e di sicurezza, allora è importante farlo nel modo più efficace, senza provocare la rottura della società israeliana.
Sarebbe auspicabile e preferibile arrivare a un accordo con l’Autorità Palestinese. Ma non dobbiamo conferirle un potere di veto sull’accordo e cadere di nuovo nella trappola della “composizione definitiva del conflitto”, restando aggrappati a ogni più remoto avamposto finché i palestinesi non ci useranno la cortesia di arrivare a un accordo sulle questioni di Gerusalemme e del profughi. È più importante arrivare a un accordo interno su una uscita e risistemazione dignitosa degli israeliani sgomberati, per reintegrarli nella società israeliana.
L’ideologia conta nel formare l’opinione pubblica, nell’istruzione e nelle piattaforme dei partiti. Ma l’arte della politica pragmatica deve tenere in considerazione i vincoli e occuparsi di ciò che è possibile, non delle fantasie. Sharon l’ha capito da tempo. Anche Amir Peretz, che crede nell’interlocutore palestinese e nello sforzo per un accordo finale, conosce la differenza fra discorsi elettorali e iniziative post-elettorali. Sa che la pace richiede consenso interno, e che talvolta realizzare qualcosa di meno può voler dire ottenere molto di più sul lungo periodo.

(Da: Ha’aretz, 24.11.05)