Un muro impedisce l’indipendenza palestinese (e non l’ha costruito Israele)

La severa analisi di un giornalista e attore palestinese

Da un articolo di Ray Hanania

image_1943Tutti i palestinesi con cui parlo denunciano sempre l’occupazione israeliana come l’ostacolo principe che impedisce loro di raggiungere l’indipendenza e migliorare le proprie vite. Ma nel mio ultimo viaggio in Palestina ho iniziato a capire che c’è un altro formidabile ostacolo, che molti palestinesi hanno paura di ammettere. Forse perché sono cresciuto in America, forse perché sono un realista, fatto sta che vedo questo ostacolo con estrema chiarezza: i palestinesi sono troppo concentrati sul passato. Impossibile fare progressi, perché i palestinesi hanno incatenato se stessi a un tabù che chiamano “normalizzazione”, e che in pratica costituisce un preciso impegno contro qualunque autentica normalizzazione.
Rifiutare la “normalizzazione”, in questo contesto, significa rifiutarsi di accettare la realtà. Gli attivisti palestinesi brandiscono la “normalizzazione” per tenere in riga i palestinesi come pecore. Gli estremisti tengono in pungo le redini della sofferenza e della frustrazione calando la carta della “normalizzazione” ogni volta che un palestinese cerca di liberarsi dei lacci mentali, affrontando la realtà dell’occupazione israeliana.
Cooperare con gli israeliani, sostengono i palestinesi, significa in qualche modo compromettere i propri diritti e la lotta contro l’occupazione. Forse sono palestinesi che non si guardano neppure intorno: la realtà è che operano con gli israeliani in ogni momento, in ogni luogo e ad ogni livello possibile.
Ai primi di quest’anno un gruppo prevalentemente israeliano affiliato a un movimento chiamato “Una Voce” cercò di organizzare un evento che avrebbe mostrato israeliani e palestinesi al lavoro insieme per la pace: musica, discorsi, una vera normalizzazione. Naturalmente gli estremisti presero posizione contro Una Voce, e lo stesso fece il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen). A quanto è stato riferito, Abu Mazen fece sapere a tutti che non sosteneva Una Voce, e i progetti di festival musicali vennero cancellati.
Ora, anch’io ho qualcosa da ridire con Una Voce. Il suo fondatore, Daniel Lubetzky, sembra una versione ebraica di un vizio assai comune nel mondo arabo e islamico: quello del “presidente a vita”. Non sono del tutto a mio agio con organizzazioni costruite attorno a singoli individui. Ma Abu Mazen non ha cestinato Una Voce per via dell’atteggiamento dirigista di Lubetzky. I leader palestinesi di Fatah e Hamas non sono certo contrari all’idea di un’organizzazione strettamente controllata. Anzi, ci prosperano. Ma sono contrari a qualunque cosa che possa permettere ai palestinesi di iniziare a pensare al di fuori della gabbia che si sono auto-imposti. (…)
Durante il mio ultimo viaggio in giro per la Palestina ho lavorato a stretto contatto con molti giornalisti palestinesi, cercando di aiutarli a trovare il modo di uscire questa vera tragedia che l’immobilismo mentale palestinese. Tutti mi dissero che avrebbero volentieri partecipato a un convegno giornalistico in cui fossero intervenuti anche direttori e reporter di importanti testate israeliane, ma che troppe pressioni imponevano loro di tenersene alla larga. “Normalizzazione”, dicevano, significa che i palestinesi non sono ancora disposti a trattare con gli israeliani come gente normale, ma solo come nemici.
Il che non ha impedito a molti palestinesi di venire al mio recital, dove recitavamo io, due affermati comici israeliani e diversi attori emergenti israeliani e palestinesi. Ma molti di più sarebbero potuti intervenire se non fosse stato per il timore della “normalizzazione”. Quasi ogni teatro in Palestina si è rifiutato di rispondere alla mia semplice domanda: possiamo recitare sul vostro palco? Amano i comici, ma non i comici che osano recitare con gli israeliani.
Ai miei compatrioti palestinesi io dico: Perché non essere semplicemente sinceri e dire la verità? Voi non volete la pace, voi volete la vendetta.
Torno da questo viaggio in Palestina e Israele con la consapevolezza che i palestinesi soffrono per vari livelli di occupazione, e uno di questi è una repressione auto-imposta, che è diventata la scusa per le loro carenze. Dicono che vogliono la pace con Israele, ma molti nel profondo non possono accettare la ferita al loro orgoglio che un compromesso comporterebbe. Non possono accettare che i loro sforzi di più di sessant’anni siano stati vani, a causa dei loro dirigenti.
Mentre i palestinesi restano soffocati nei loro vagheggiamenti, a pochi chilometri di distanza gli israeliani vivono la loro vita, crescono come popolo e fioriscono come società. La capacità dei palestinesi di costruire il loro stato continua ad erodersi, e la cosa che mi turba di più è che coloro che guidano questa erosione sono essi stessi palestinesi. Imprigionati da un muro di ignoranza formato dalla loro stolta incapacità di andare al di là della retorica e dell’odio del passato per guardare in faccia la realtà di oggi, ai palestinesi resta una sola alternativa: o iniziare a vivere dentro la realtà, o scomparire nel passato.

(Da: Jerusalem Post, 18.12.07)