Una conferenza sbagliata, nel momento sbagliato

Finché i palestinesi si rifiutano di negoziare, e di riconoscere Israele come stato ebraico, piani e conferenze internazionali non possono produrre la pace

Di Rafael L. Bardaji e Richard Kemp

Rafael L. Bardaji e Richard Kemp, autori di questo articolo

E’ facile per il mondo dare la colpa di tutti i suoi problemi a Israele. E’ facile, per molti leader, incolpare Israele per il fallimento del processo di pace con i palestinesi. E’ facile, ma non è giusto. Ed è anche un grosso sbaglio.

E’ facile anche pensare che la comunità internazionale, le organizzazioni multilaterali come l’Onu e le conferenze internazionali possano imporre una soluzione alle parti e, voilà, tutti i conflitti saranno risolti. Ma se le parti non sono disponibili, se i conflitti non sono al momento risolvibili, non c’è soluzione possibile. In realtà la pace, una vera pace duratura, non può che essere il risultato di negoziati diretti tra le parti coinvolte e di accordi da esse raggiunti liberamente. La pace tra israeliani e palestinesi non ha bisogno di altri piani o di conferenze come quella che si terrà a Parigi domenica 15 gennaio. Quello di cui ha bisogno è di due parti veramente impegnate e pronte a negoziare.

Purtroppo non è così. Da diversi anni a questa parte i responsabili dell’Autorità Palestinese hanno deciso di non sedersi a negoziare con il governo israeliano. Hanno preferito lanciare, invece, una campagna unilaterale volta a ottenere che la comunità internazionale imponga come un diktat il loro riconoscimento come stato sovrano senza dover fare nessuna delle concessioni e dei compromessi che tipicamente comportano i veri negoziati.

La Conferenza di Parigi in programma per domenica nasce da buone intenzioni, ma arriva in un momento molto negativo. Da un lato, la risoluzione 2334, adottata di recente dal Consiglio di Sicurezza, ha avallato la versione palestinese secondo cui il cuore del problema si riduce a una questione geografica: gli insediamenti in Cisgiordania e le linee del ’67. Ma questa interpretazione non regge. Ogni volta che Israele ha ceduto terra in cambio di pace ha ottenuto solo più terrorismo. Il caso più eclatante e visibile è la striscia di Gaza: da quando Israele ha attuato il ritiro unilaterale, nel 2005, di tutti i suoi civili e militari, Hamas ha preso il controllo di quel territorio nella totale impunità e gli attacchi contro Israele non hanno fatto che continuare. Migliaia di razzi e missili sono stati lanciati da Gaza contro la popolazione civile in Israele.

E’ facile credere che il conflitto possa essere ridotto a una questione di territori. Ma è falso. La realtà è ben diversa. Il vero problema è che i palestinesi non vogliono cedere su nulla di ciò che chiedono gli israeliani, a cominciare dal riconoscimento di Israele come stato nazionale del popolo ebraico. Alla base c’è questo: niente di più, niente di meno.

Sull’uniforme di una scuola elementare femminile dell’Autorità Palestinese a Hebron, intitolata alla terrorista Dalal Mughrabi, la mappa della “Palestina”: Israele è cancellato dalla carta geografica

Pretendere che Israele rinunci a qualsiasi rivendicazione sul Muro Occidentale (“del pianto”), e su altri luoghi che stanno al centro di millenni di ebraismo, non è solo la negazione dell’interlocutore e un’idiozia storica: è una mossa sbagliata sotto tutti i punti di vista. I palestinesi chiedono oggi Gerusalemme est, domani vorranno tutta la città e più tardi l’intero paese. In effetti è questo ciò che insegna la loro propaganda. I loro libri di testo scolastici, pagati con i soldi dei contribuenti europei, dicono esattamente questo. Pieni di istigazione all’odio e alla violenza, si basano su una chiara negazione di Israele e del popolo ebraico.

La pace non può scaturire dall’incitamento all’odio e alla violenza. Sarebbe bene che i partecipanti alla conferenza di Parigi chiedessero ai dirigenti palestinesi di piantarla con le loro campagne di indottrinamento contro Israele e accettassero una buona volta che Israele è stato creato come patria del popolo ebraico e che continuerà ad essere tale. Prima lo faranno meglio è, perché solo allora potranno arrivare a un accordo di compromesso con Israele sulla spartizione della terra e il tracciato dei confini.

Nello stesso spirito, la conferenza internazionale farebbe bene a chiedere che lo stato palestinese si doti di istituzioni trasparenti e controllabili, e che promuova la tolleranza e la convivenza pacifica con il vicino Israele. Nessuna democrazia liberale dovrebbe compiacersi di dare vita a un nuovo ricettacolo di corruzione, nepotismo, discriminazione e violenza.

Immagine palestinese postata con hashtag “Intifada Truck” per celebrare “l’eroe martire di Jabel Mukabbar, a Gerusalemme, che ha compiuto l’eroica operazione di investimento stradale”

La conferenza ospitata dal presidente francese Francois Hollande cade proprio nel momento sbagliato. Domenica scorsa un jihadista palestinese ha falciato un gruppo di giovani soldati sulla Promenade Haas-Sherover di Gerusalemme esattamente come altri jihadisti hanno fatto di recente, sul lungomare di Nizza e al mercato natalizio di Berlino. E’ da un paio d’anni che Israele subisce un’ondata di attacchi terroristici “a bassa intensità” di questo genere. Questo non è certo il momento di castigare o fare pressione su Israele, per almeno due buone ragioni. In primo luogo, perché i palestinesi, più ritengono che Israele sia isolato, più sono tentati di incrementare la violenza e l’intransigenza contro Israele. Accadde con Yasser Arafat nel 2000 e accadrà di nuovo se continuiamo a incolpare e delegittimare Israele. In secondo luogo, isolare Israele significa perdere quello che è probabilmente il migliore alleato che ha l’Occidente nell’affrontare la minaccia jihadista. Da decenni gli israeliani fanno i conti in prima persona con questa minaccia e hanno sviluppato tecniche e competenze per farlo. Altri paesi possono imparare molto da loro.

Nonostante le buone intenzioni, la conferenza di Parigi non può produrre alcun risultato che porti alla pace tra israeliani e palestinesi. Al contrario, può alimentare altra violenza e rifiuto reciproco: esattamente il contrario di ciò che vorrebbe fare. Ecco perché noi chiediamo sommessamente a Hollande di sospenderla e riconvocarla quando le circostanze saranno più favorevoli. Non basta il desiderio di fare del bene, bisogna anche sapere come farlo.

(Da: Israel HaYom, 12.1.17)