Una leadership che dica la verità e infonda speranza

Diatribe interne e minacce da oltre confine.

Se ne discute in Israele: recenti commenti sulla stampa israeliana

image_3020YEDIOT AHARONOT si domanda cosa gli è preso agli egiziani. «Hanno incominciato con “l’affare dello squalo” che ha attaccato una turista tedesca a Sharm el-Sheikh e il governatore egiziano che ne ha prontamente attribuito la colpa al Mossad. Poi è arrivata la bizzarra storia di un rapimento alla luce del sole perpetrato nel Sinai da “agenti del Mossad”: hanno fatto scomparire un intero gruppo di turisti, li hanno fatti tornare nel giro di due giorni e non si è sentita la minima denuncia dai rapiti del “sequestro” fasullo. L’ultimo e più succoso episodio è una spy-story capace di dare la sensazione che “questa volta c’è davvero qualcosa di grosso”. Riguarda un istruttore di Kung Fu che si è ritrovato in Egitto in mezzo a debiti e difficoltà, ha tentato la fortuna in Cina, e ha mandato una lettera al Mossad che si sarebbe gettato su di lui come se fosse una miniera d’oro. […] Evidentemente i mass-media egiziani stanno facendo a gara su chi spara la rivelazione più grossa: pubblicare l’ultima su come è stato “fregato” il Mossad significa un aumento di audience garantito.» (27.12.10)

HA’ARETZ scrive che alcuni parlamentari estremisti della Knesset e alcuni rabbini locali stanno istigando la popolazione israeliana con dichiarazioni e proposte di legge di stampo “razzista”. E aggiunge: «Gli uni e gli altri hanno assunto una sorta di controllo esclusivo dell’arena pubblica, creando l’impressione che tutti siano in balia delle loro opinioni oscurantiste.» L’editoriale fa appello all’opinione «umanista e liberale del paese», a partire da «accademici, artisti e intellettuali», affinché si opponga con forza a questo corso e alla «anemica» reazione del governo Netanyahu. E conclude: «Vi sono molti israeliani, sia ebrei che arabi, che vivono questa sobillazione con un senso di impotenza e di angoscia. È giunta l’ora che i rappresentanti della libertà e della moralità, a nome e insieme a questi cittadini, si mettano alla testa di una protesta chiara e assertiva.» (27.12.10)

YISRAEL HAYOM sostiene che le recenti dichiarazioni sulla Turchia del ministro degli esteri israeliano Avigdor Liberman «fanno il gioco di Erdoğan». «Al summit di Davos del gennaio 2009 – scrive l’editoriale – il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan iniziò a dirigere costantemente e metodicamente il deterioramento dei rapporti fra il suo paese e Israele. L’apice è stato raggiunto durante la sua recente visita a Beirut, dove Erdoğan si è spinto al punto di minacciare guerra a Israele se questi dovesse attaccare la striscia di Gaza o il Libano. Non c’è da stupirsi se il suo ministro degli esteri, Ahmet Davutoğlu, ha parlato l’altro giorno a Istanbul del desiderio della Turchia di “fare pace con Israele” come se fossimo già in guerra. La retorica dei dirigenti turchi ha navigato molto al di là della Mavi Marmara. La domanda è: Israele deve unirsi a questo volgare circo assai poco diplomatico?» (27.12.10)

HA’ARETZ critica il governo Netanyahu che, scrive, considera l’immigrazione illegale da Sudan ed Etiopia come un grave pericolo che «minaccia ogni cittadino, minaccia l’occupazione dei lavoratori israeliani, e minaccia il carattere ebraico e democratico dello stato d’Israele». L’editoriale sostiene che questa linea di pensiero serve solo a «incoraggiare i teppisti dell’estrema destra kahanista e alcuni rabbini comunali razzisti a dichiarare guerra agli stranieri». E conclude: «Gli immigranti da Sudan ed Etiopia costituiscono per Israele un problema umanitario, ma non mettono in pericolo la sua esistenza o il suo futuro. Dipingerli come nemici dello stato, specialmente da parte del primo ministro, è benzina gettata sulle fiamme del razzismo e della xenofobia.» (26.12.10)

YEDIOT AHARONOT scrive: «Non è una coincidenza se negli ultimi anni la Siria e le organizzazioni terroristiche si sono equipaggiate con migliaia di missili e di razzi. Dalla prima guerra del Golfo (1991) fino alla seconda guerra in Libano (2006), e tutti i momenti difficili fra l’una e l’altra, al di là del confine hanno appreso una lezione assai importante dal loro punto di vista: e cioè che non hanno alcuna chance sulle linee del fronte. Lì le Forze di Difesa israeliane li sconfiggeranno sempre. Soprattutto, non hanno alcuna chance di battere le forze aeree israeliane. Dunque, che fare? Cercano di scavalcare le Forze di Difesa israeliane sulle linee del fronte e di aggirare la superiorità delle forze aeree israeliane mirando direttamente a quello che percepiscono come l’anello debole della catena: il fronte interno israeliano, i civili, soprattutto nell’area metropolitana della “grande Tel Aviv”. Oggi, a quasi vent’anni di distanza, è fuor di dubbio che il comportamento della popolazione civile israeliana di Tel Aviv durante la guerra del Golfo del 1991 fu ciò che convinse coloro che ci stanno attorno che l’anello debole della catena della sicurezza israeliana è la popolazione sul fronte interno. Sebbene nessuno neghi il naturale desiderio di sfollare dalle aree di pericolo senza aspettare che gli Scud cadano sulla testa, la fuga ogni sera di quasi 500mila abitanti di Tel Aviv verso la periferia ha indotto un salto di consapevolezza fra i decisori politici nei paesi arabi e nelle organizzazioni terroristiche.» L’editoriale ritiene che la cosa più importante che il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Ehud Barak possono offrire al momento, date le molteplici minacce cui Israele deve fare fronte da Siria, Hezbollah, Iran e Hamas, «non sono i budget, i soldi o le organizzazioni, bensì una leadership energica che dica la verità e, soprattutto, che infonda speranza.» (26.12.10)