Una Road Map per Tony Blair

In Iraq e fra i palestinesi le elezioni hanno generato partiti basati su milizie armate

Da un articolo di Shlomo Avineri

image_1758La nomina di Tony Blair a rappresentante per il processo di pace in Medio Oriente del Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu) mette l’ex primo ministro britannico al centro del fuoco incrociato politico della regione. Molti commentatori arabi hanno manifestato malcontento per la nomina di una persona identificata con la politica del presidente Bush in Iraq. Alcuni israeliani hanno espresso un moderato disagio, data l’insistenza con cui Blair invocò un prematuro cessate il fuoco l’estate scorsa durante la guerra in Libano contro Hezbollah. E a Bruxelles circolano timori che Blair possa in parte rubare i riflettori al rappresentate della Ue Javier Solana.
Sopra a tutto questo, però, c’è il fatto che sono già parecchi i mediatori internazionali che in passato hanno fallito in Medio Oriente, e non v’è motivo di credere che quello attuale sia un momento particolarmente propizio alla costruzione della pace nel regione.
Ma c’è un aspetto, nell’enunciazione della missione di Blair, che appare nuovo e sul quale il neo inviato del Quartetto potrebbe ottenere qualche risultato se saprà muoversi con saggezza e con attenzione. Blair, infatti, è chiamato ad aiutare i palestinesi a dotarsi di istituzioni coerenti. Il fallimento del processo di nation-building palestinese dovuto alla mancanza di istituzioni efficaci è stato, più di ogni altro, il peggiore nemico della causa dell’indipendenza palestinese. Se i palestinesi continueranno a fallire su questo terreno, il loro sogno di avere uno stato è condannato a naufragare – come a Gaza – in un bagno di sangue intestino, con innumerevoli milizie e bande di clan che si combattono e ammazzano fra loro.
È un fenomeno già accaduto in passato, ai palestinesi, anche se essi fanno attenzione a non farlo sapere in giro. La rivolta araba del 1936-39 contro gli inglesi in Palestina, caratterizzata da attacchi terroristici contro civili ebrei e britannici, finì in un bagno di sangue nel quale le due principali milizie armate – una fedele al clan degli Husseini, l’altra al clan dei più moderati Nashashibi – provocarono la morte di un maggior numero di palestinesi di quelli uccisi dalle forze britanniche allora di stanza nella Palestina Mandataria.
Siamo di fronte, qui, a un contesto più ampio, e Blair dovrebbe far tesoro dell’esperienza irachena, dove ha condiviso l’ingenua convinzione del presidente Bush che, tolto di mezzo Saddam, la democrazia irachena sarebbe automaticamente fiorita. L’errore in quello schema – che ha trasformato una guerra giusta contro il regime genocida di Saddam nel pantano di oggi – non stava soltanto nel fatto che la democrazia non si costruisce sulla punta delle baionette. Più fondamentale è il fatto che il mondo arabo è rimasto l’unica regione del mondo che non ha visto emergere un movimento democratico nel corso degli ultimi vent’anni, anni durante i quali altre regioni del mondo – l’Europa orientale, l’America latina, l’Africa sub-sahariana, il sud-est asiatico – sono stati invece investiti da trasformazioni democratiche.
Questo fenomeno non ha le sue radici nell’islam, quanto piuttosto in un problema specificamente arabo, come stanno a dimostrare casi diversi tra loro come la Turchia, l’Indonesia, il Bangladesh, e persino l’Iran in cui, sebbene nel rigido perimetro del regime teocratico, si tengono dopotutto elezioni realmente combattute e si percepisce una vibrante società civile.
In Iraq le elezioni ispirate dagli Stati Uniti hanno dato vita a partiti faziosi fondati su base etnica, ciascuno sostenuto dalla sua milizia armata. Analogamente, nei territori palestinesi le elezioni ispirate dagli Stati Uniti hanno dato origine al successo di Hamas e all’attuale situazione in cui le milizie di Hamas dominano a Gaza, mentre in Cisgiordania prevalgono le milizie di Fatah.
Sia in Iraq che fra i palestinesi le elezioni hanno generato partiti basati su milizie armate, e il potere in definitiva si gioca sulla canna dei fucili. Chiunque creda che in Iraq o in Palestina possano presto aversi delle elezioni che portino a un ordinato passaggio di poteri dalle milizie e dalla bande armate a un governo legittimo, fraintende tragicamente il sotto-testo della politica araba.
Le elezioni fanno parte della modernità nel senso che la lealtà verso lo stato e le sue istituzioni prende il posto delle affiliazioni tribali, religiose, di clan. Ci son voluti secoli in Europa per arrivare a questo punto, mentre nessun paese arabo lo ha ancora fatto (il Libano è un altro triste esempio). Come si vede, di nuovo, sia in Iraq che tra i palestinesi, né i vincitori né i perdenti si comportano secondo quelle che dovrebbero essere le regole del gioco: i vincitori non rispettano i diritti dei perdenti, e i perdenti la giurano alla maggioranza vincente e non rispettano il risultato elettorale.
Tony Blair farebbe un colossale errore se puntasse tutto sul tentativo di arrivare a una nuova tornata elettorale o a un nuovo illusorio governo d’unità nazionale (ci hanno provato i sauditi, fallendo miseramente). Ciò di cui hanno bisogno i palestinesi in questo momento non è un altro futile esercizio di democrazia voluto dall’occidente, bensì di assistenza nel mettere insieme i mattoni di una politica coerente. Il che comporta garantire, se necessario con misure decise e talvolta dure, che vi sia una sola legittima istituzione autorizzata a portare armi. Mahmoud Abbas (Abu Mazen) lo ha detto bene: “una sola autorità, una sola legge, un solo fucile”. Ma poi ha continuato a fare affidamento su tante milizie e bande affiliate a Fatah e su servizi di sicurezza rivali fra loro: la risposta è stata il golpe di Hamas a Gaza.
Sebbene i palestinesi non siano divisi, come gli iracheni, lungo linee di frattura scismatiche o etniche (dopotutto sono per la maggior parte arabi sunniti, con una piccola minoranza non militante di cristiani), tuttavia sono divisi secondo lealtà regionali e di clan. Un governo palestinese efficace dovrebbe mettere insieme i vari clan e leader regionali in un patto di unità nazionale che sia fondato non sui partiti o movimenti basati sulle milizie, ma sulle reali lealtà in gioco. Al di sopra di queste lealtà realmente in gioco dovrebbe essere creata, attorno alla presidenza, un’unica potente forza armata, e non decine di apparati di sicurezza.
Come insegna la storia d’Europa, prima di arrivare alla democrazia ci vuole uno stato forte ed funzionante. La democrazia può garantire la stabilità, ma il processo di democratizzazione è lungo e in genere destabilizzante (si veda l’impervia strada che portò da Cromwell, alla Gloriosa rivoluzione inglese, al parlamentarismo, o il secolo intero che ci volle ai francesi per stabilizzare la loro repubblica democratica). Non esistono scorciatoie, e se Blair cercherà di attuare in Palestina ciò che Bush non ha potuto ottenere in Iraq, aggiungerà un altro insuccesso al suo curriculum. Sia lui che – cosa più importante – i palestinesi si meritano di meglio.

(Da: Jerusalem Post, 1.07.07)

Nella foto in alto: Shlomo Avineri, dell’Università di Gerusalemme