Una strategia decisa contro Hamas e Hezbollah

Israele necessita di una nuova dottrina militare per difendersi dai nemici di oggi

Da un articolo di Hanan Shai

image_2684Ad un “seminario” tenuto alla vigilia della fondazione dello stato d’Israele, David Ben-Gurion si rese conto che la tattica strettamente difensiva con cui l’Haganah (l’organizzazione paramilitare di difesa ebraica durante il Mandato britannico) aveva fino a quel momento combattuto gli attacchi delle bande arabe non era adatta per fronteggiare la prevista invasione del paese da parte degli eserciti degli stati arabi circostanti. Scavalcando lo stato maggiore dell’Haganah, che non aveva capito il cambiamento, Ben-Gurion predispose l’acquisizione di armamenti tali da rendere possibile la vittoria nella guerra d’indipendenza (1948-49).
Sessant’anni dopo, Israele si trova bloccato in un’analoga discordanza: dispone di un esercito leggero e molto mobile pensato per affrontare eserciti mobili di altri stati, attuando “un veloce trasferimento dello scontro sul territorio nemico”: secondo la classica dottrina militare israeliana, sviluppata nei decenni in cui doveva difendere un paese piccolo e dai confini frastagliati, in caso di scoppio delle ostilità gli eserciti nemici dovevano essere rapidamente fatti ripiegare verso la loro capitale e minacciati di distruzione nel caso non venissero accentate le condizioni minime poste da Israele per la cessazione dei combattimenti.
Oggi però Israele è minacciato da eserciti statici, di stati e organizzazioni terroristiche, attrezzati per sparare enormi quantità di razzi e missili da postazioni ben fortificate. Secondo il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, questo deve costringere Israele ad usare il suo esercito in prolungate battaglie di posizione, con un elevato numero di vittime sia militari che civili.
La seconda guerra in Libano (estate 2006) è stata combattuta nell’ingenuo presupposto che prendere di sorpresa Hezbollah con ardite operazioni aeree, senza arrivare a operazioni di terra, avrebbe causato un classico effetto “shock and awe” (shock e sgomento) tale da scoraggiare e far cessare il lancio di razzi. Durante la campagna anti-Hamas nella striscia di Gaza del gennaio scorso è stata tentata una dottrina intermedia, combinando distruzioni mirate delle sorgenti del fuoco nemico con raid aerei volti a spargere terrore fra le file del nemico; il che avrebbe dovuto anche conferire a Israele forza deterrente e supremazia sulle aree dei lanci. Ma la guerra a Gaza, come quella in Libano, è diventata – per gli standard israeliani – una guerra trascinata per le lunghe senza che la minaccia missilistica venisse davvero rimossa.
La lezione da trarre è chiara: i razzi, la loro localizzazione e il cinico utilizzo dei civili sia come bersagli che come scudi umani ha reso inadeguata la concezione operativa tradizionale delle Forze di Difesa israeliane rispetto alle nuove minacce, come lo era la tattica difensiva dell’Haganah alla vigilia della guerra di indipendenza. Bisogna tornare a studiare in un “seminario”.
Israele non può sacrificare centinaia dei suoi soldati in battaglie trascinate per le lunghe. Né ha senso tornare al mito, rivelatosi infondato, secondo cui la pressione psicologica procurerebbe forza deterrente anche in assenza di una vittoria decisiva, demolendo l’attitudine del nemico a combattere. Israele non deve “proteggere se stesso a tutti i costi” e spendere una fortuna nel dotare di difese passive il fronte interno mentre estende e protegge in modo eccessivo le forze sul terreno, trasformandole in un esercito suscettibile di tracollo. E sicuramente non deve adattarsi alla previsione che, in un’eventuale prossima guerra, vengano colpiti più i civili che militari.
Israele deve neutralizzare la tattica militare che viene oggi utilizzata contro di esso mediante una dottrina sua propria. Al posto di distruzioni lente e mirate di singole rampe di lancio, dovrebbe bombardare sistematicamente le aree da cui vengono lanciati i missili per eliminare la maggior parte delle rampe, degli armamenti e dei nemici combattenti, dopo aver diramato il necessario preavvertimento ai civili della zona. Le forze di terra verranno usate, dopo il bombardamento dell’area, se il controllo diretto dell’area risulterà essenziale, e solo dopo aver ottenuto la massima distruzione possibile di postazioni e tunnel nemici col fuoco a distanza. Adottare questa dottrina richiederà un grande volume di fuoco e la massima priorità dovrà essere data all’acquisizione dei velivoli e delle munizioni necessari a tale scopo.
Ma la sfida tecnologica è trascurabile in confronto ai problemi etici e legali suscitati da tale nuova dottrina. Nel “seminario”, durante le discussioni sugli aspetti etici, è vitale ricordare che l’aderenza di Israele ai controlli e ai vincoli adottati dalla sua società civilizzata, laddove i suoi nemici sistematicamente si sottraggono a tutti questi limiti, può rivelarsi – se portata all’estremo – un meccanismo di autodistruzione. Sulla questione etica, vale la pena citare Ben-Gurion il quale diceva che, se bisogna soppesare tutti i valori morali da una parte e le necessità per la sopravvivenza della nazione dall’altra, le questioni di sicurezza devono avere la precedenza. Per la semplice ragione che non c’è nessuna esistenza morale se non è garantita prima di tutto l’esistenza fisica.

(Da: Ha’aretz, 3.12.09)

Nella foto in alto: In violazione delle risoluzioni Onu, il governo libanese ha recentemente approvato il “diritto” dei terroristi Hezbollah di detenere armi e usarle contro Israele