Uno scrittore ebreo a Gerusalemme

In occasione dell'uscita in libreria del libro di Haim Be’er "Lacci d'amore", pubblichiamo un'intervista all'autore

Di Claudia Rosenzweig, con la collaborazione di Anna Linda Callow

image_589In occasione dell’uscita in libreria del libro di Haim Be’er “Lacci d’amore”, nella traduzione di Shulim Vogelmann (Giuntina, Firenze 2005), siamo lieti di pubblicare un’intervista con l’autore:

Nella sua opera si avverte una critica verso una società, quella israeliana, cha ha cercato di costrursi sul distacco dal proprio passato, dalle sue radici ebraiche. Cosa succede in Israele dal punto di vista della cultura?
Be’er – Quello che mi interessa, e al tempo stesso mi disturba e mi imbarazza, è ciò che ho menzionato più volte nella mia opera, il fatto cioè che quella israeliana sta diventando una cultura senza la capacità di cogliere riferimenti, senza citazioni. So benissimo di non dover continuare ciò che i miei genitori hanno fatto, ma ci sono nella letteratura israeliana delle tendenze distruttive. L’importante non è tanto continuare la tradizione dei padri, quanto piuttosto che ci sia la sensazione di costruire su qualcosa; è come l’arredamento di una casa: c’è del mobilio moderno, altro mobilio ereditato dai nonni, la porta che proviene dalla casa di campagna, il regalo di una zia; in questo modo si crea qualcosa di molto naturale. La società ebraica in Israele non è stata capace di creare qualcosa di simile in modo naturale con gli oggetti, perché la maggior parte degli oggetti è andata perduta: una delle tragedie di un popolo che è costituito interamente da emigranti, è che gli oggetti non lo hanno seguito. Alla società ebraica non avanzano oggetti, la maggiorparte sono andati persi, una parte ce l’hanno presa. Quando sono stato a Roma, al Vaticano, ciò che mi occupava la mente tutto il tempo non era tanto la Cappella Sistina, bensì il pensiero di ciò che c’è nelle cantine: se esse custodiscono qualcosa che appartiene a me, ai miei genitori. C’è la sensazione che una grande quantità di cose siano andate perdute. Una parte bruciate, altre rubate, ciò che resta di fatto è qualcosa di poco concreto ma che ha una grande presenza ed è la cultura. È come la sensazione degli aseret harughe’ malkhut, i ‘dieci martiri’ di cui parla il Talmud: i romani sorpresero Rabbi Hanina ben Tardion con un sefer Torà, un Libro della Torà, tra le braccia, lo avvolsero nel rotolo della Torà, e lo bruciarono; gli dissero i suoi allievi, maestro, che cosa vedi? Rispose: La pergamena che brucia, le lettere che volano nell’aria. Il concetto delle lettere volanti è di fatto la lingua, l’acme di questo concetto è la lingua. Le parole che noi diciamo e quelle che escono dai libri. Ho sempre la sensazione che l’aria sia piena di palloni che volano e che io cerco di riportarli indietro. Sono le associazioni con la Mishna, con il Talmud, e per quanto mi riguarda anche con lo yiddish, perché non faccio alcuna divisione tecnica secondo la quale questa è una lingua a sé e quella una lingua a sé. Anche i miei amici che vengono dall’Iraq o dal Nord Africa non la fanno. Non credo che la lingua sia qualcosa per puristi, è piuttosto come uno stomaco che riceve il cibo, e intanto si continua a mangiare, si aggiunge continuamente. Ciò che mi addolora molto è che in una certa fase la cultura in Israele ha deciso di fare una “epurazione” come in Russia, “questi in Siberia e quelli uccisi e gli altri respinti” e ancora: “Lo yiddish non va bene, la lingua del Talmud non va bene, solo la Bibbia va bene”. La Bibbia stessa è la base della lingua voluta dei maskilim, gli illuministi ebrei. La loro eredità continua nella cultura dei ‘laici’ israeliani, che non vogliono la lingua del Talmud ma solo quella della Bibbia; la Bibbia è il simbolo della haskalà, dell’Illuminismo ebraico. Di tutto l’enorme patrimonio della tradizione ebraica è rimasta solo la Bibbia. Una volta ho chiesto a uno dei miei studenti, che si occupava di computer, di mettere su computer il Cantico dei cantici e un catalogo di letteratura ebraica moderna e di vedere quanti libri ebraici moderni hanno preso nome dal Cantico e si è visto che ce n’erano moltissimi. La presenza del Tana”kh, la Bibbia ebraica, è importantissima, ed è giusto che sia così, ma non basta. Oggi la cultura per vari motivi è priva di riferimenti. Un uomo cammina e non c’è niente che gli ricordi qualcosa. Questo mi fa davvero diventare matto. A volte dico qualcosa e nessuno coglie il riferimento. Le uniche associazioni che la gente ha oggi vengono dalla pubblicità. So bene che non si può dire che non sia una tendenza generale di tutto il mondo, di fatto lo è, è una americanizzazione come quella di cui parla Allan Bloom nel suo famoso libro, The Close of American Mind. Si tratta di un libro molto interessante, in cui l’autore dice che l’Europa viene soffocata; una volta Roma dominava il mondo e ora è l’America a farlo, la forza degli imperi sta proprio nel fatto che essi diventano il denominatore comune. la cultura americana è molto adatta a quella israeliana, perché entrambe sono costruite sull’emigrazione. Io e mia moglie siamo stati a Siena, a Roma, e ogni cosa ci ha ricordato qualcosa d’altro. Quando siamo stati a Roma, ad esempio, e abbiamo visto il camino da cui esce il fumo bianco per l’elezione del Papa, ci siamo ricordati da dove viene l’espressione che sentiamo quando dicono che il governo si riunisce nella Knesset e non si esce di là finché non ci sarà una “fumata bianca”. Quando si è abituati al simbolo e poi si incontra l’oggetto concreto ci si emoziona molto. Ma chi non sa niente potrebbe dire: e allora? Anche qui c’è un camino, che cosa mi importa che quello sia di Giovanni Paolo e questo del tale dei tali? Invece ogni cosa ha un significato, come quando si dice ecce homo, e si esattamente da dove viene. Per quanto riguarda gli europei è diverso: è tutto più facile perché hanno materiali, oggetti, monumenti, luoghi storici che non distruggono, ma anzi conservano. Se si vive in una cultura che non ha concretezza, come quella ebraica, è più difficile. Tutta la nostra cultura di fatto entrerebbe in un’unica cantina, come nella Biblioteca Nazionale di Gerusalemme, o in un cd.

Eppure oggi, grazie all’esistenza dello Stato di Israele, la concretezza di cui lei parla dovrebbe cominciare ad esistere.
Be’er – La mia patria è dove c’è l’ebraico, in questo momento è su questo balcone, non importa se la vista è sul Duomo o sulla Torre di Davide. Anche se so di avere una Torre di Davide da qualche parte, sento comunque questo, e non dico che sia giusto, ma ho la sensazione che quella ebraica sia una cultura che si sta perdendo, un attimo prima che vada perduta. In un film di Fellini c’è una scena in cui fanno degli scavi e trovano una grande stanza con un affresco molto bello e poi aprono una finestra e nel momento in cui entra la luce tutto scompare. Non ho nessun dubbio: la nostra è davvero una cultura con poche rovine materiali, la nostra vera capitale è la Biblioteca Nazionale, che è come il cuore di una centrale atomica, il luogo dove tutto si raccoglie, e fin da quando ero bambino ho sempre avuto la sensazione che finalmente i libri fossero arrivati in un posto intorno al quale era possibile costruire qualcosa. Dal mio punto di vista quello che sta succedendo in Israele, il distacco dalla cultura ebraica, è una tragedia, dove gli israeliani mi ricordano un po’ i romani o gli egiziani del Cairo: hanno dei tesori enormi e non riconoscono questa responsabilità, non sono consapevoli di ciò su cui siedono, piantano un chiodo su un affresco. Fra centinaia d’anni anche il chiodo sarà un opera d’arte ma oggi non lo è.

Pensa che attraverso la letteratura sia possibile rovesciare questo processo?
Be’er – Penso che forse la letteratura sia l’unico modo per portare ad un cambiamento culturale, anzi, è l’arte l’unica cosa in grado di fare un miracolo, non solo la letteratura. Direi quasi che l’arte è come un jolly in un gioco di carte, qualcosa che ha il potere di confondere tutte le carte e di sovvertire le regole. Me ne sono accorto perché anche gente che non la pensa come me quando legge il mio libro, Lacci d’amore, viene trascinata da questa esperienza che parla loro. Il messaggio che passa attraverso la lettura è molto più forte di qualsiasi discussione intellettuale, anzi, non è intellettuale, agisce bensì in tutta un’altra zona. In Lacci d’amore ho cercato di raccontare una storia – questo è il livello più semplice – la storia di qualcuno che superata la mezza età guarda ai propri genitori, non racconta il proprio racconto, ma quello dei genitori, dopo la loro scomparsa. Il rapporto con i genitori è quello più importante della vita e ci accompagna dal giorno della nostra nascita fino alla nostra morte, anche se, come di solito avviene, essi muoiono prima dei figli. Se entrate in un ospedale, le persone che stanno per morire, gridano tutte mamma, papà, non chiamano la moglie o il marito o i figli, anche se questi sono loro accanto, tutti chiamano la mamma, è una cosa straordinaria Se penso agli italiani o ai russi, anche se il racconto si svolge a Gerusalemme, mi accorgo che il modo di porsi del figlio davanti ai genitori è qualcosa di comune, è una parte del racconto e non è qualcosa di astratto ma di concreto, ed è qualcosa che tutti possono sentire. Lacci d’amore è un libro che sono molto contento di aver scritto proprio per questo. Ho ricevuto centinaia di lettere, ne ho due casse piene, e soprattutto di donne, che si identificano, leggono, scrivono. Ho la sensazione che la responsabilità della cultura nel mondo passi ora per mano delle donne, ancora una volta esse fi fanno carica di tutta la responsabilità. Non è tanto importante chi pratichi l’arte, ci sono tanti uomini che praticano la cultura, musica, pittura, letteratura, ma chi sono i clienti? È molto interessante, è un fenomeno sociologico che ancora non è stato indagato come si deve: oggi i consumatori principali della cultura, quelli che mantengono la cultura, comprano la cultura, sostengono la cultura a tutti i livelli sono le donne. Basta vedere le conferenze e le lezioni all’università: le donne sono l’ottanta per cento.

Pensa a un pubblico femminile quando scrive?
Be’er – No, anche gli uomini si identificano nella figura della madre di Lacci d’amore. Però per me è stato molto interessante scrivere di una donna, cercare di capirla da una posizione di intimità spirituale profonda. Non ho scritto al posto di una donna, non posso e nemmeno voglio giocare a questo gioco, ma nel modo più vicino nel quale un uomo possa descrivere una donna, e mi sembra di esserci riuscito. Mi interessa molto sapere che cosa succederà a questo libro. In Germania è già stato pubblicato, ma penso che l’Italia con la sua cultura cattolica gli sia più vicino, per via della posizione della madre e del legame che sento con i film di Fellini. Mi piacerebbe vedere che cosa succederà in Italia a questo libro. Penso che gli italiani potrebbero capirlo a un livello più profondo dei tedeschi.

Ha parlato di references, di citazioni, del problema dell’eco che le parole suscitano, della capacità delle parole di esplodere con più significati. Pensa che in traduzione si riesca a veicolare ancora una volta qualche eco?
Be’er – In Germania la traduzione di Lacci d’amore è stata pubblicata con delle note e anche un glossario, ma una parte delle references va comunque persa nella traduzione. Per esempio, un libro italiano che è stato tradotto in ebraico e che ha avuto grande influenza su di me è stato Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa, che per me è il capolavoro di un autore non più giovane ormai, il primo e l’ultimo libro che ha scritto, e per me è un libro perfetto. E’ chiaro che io non posso capire tutti i riferimenti alla società siciliana, ma è come se potessi toccare tutto ciò, toccare come un cieco che visita un museo di sculture, forse non posso vedere ma alla fine posso toccare, per quanto questo tipo di conoscenza possa essere imperfetto.

E gli israeliani avrebbero bisogno di note?
Be’er – Gli israeliani hanno bisogno di note ma a volte capiscono come attraverso la pelle: la letteratura è qualcosa che interessa ed emoziona e c’è anche dell’altro da dire: io posso vedere un oggetto d’arte da lontano e non conoscerne la provenienza e non capirlo fino in fondo ma trarne lo stesso un godimento. Le associazioni sono qualcosa che uno si porta dentro. Non credo alla letteratura ebraica come la si studia nelle lezioni dei professori universitari: una parte importante della letteratura israeliana non viene percepita dal mondo accademico.

Può citarci qualche altro autore italiano che l’ha interessata, a parte Tomasi di Lampedusa?
Be’er – Ho letto Elsa Morante, Italo Calvino, Natalia Ginzburg, ma finché non abbiamo avuto le traduzioni in ebraico dei libri di Elsa Morante, lei per noi non esisteva. Grazie alle traduzioni riceviamo un’immagine diversa della letteratura italiana. Per questo sono molto felice che Lacci d’amore sia uscito in traduzione italiana, perché penso possa offrire una visione diversa della letteratura israeliana.