Usa in Siria: intervenire o non intervenire?

Una guerra civile con troppe vittime e molti rischi, ma dove «non ci sono santi».

Alcuni commenti dalla stampa israeliana

image_3723Diversi giornali israeliani commentano la dichiarazione della Casa Bianca secondo cui “il regime siriano ha usato armi chimiche su piccola scala in Siria, in particolare l’agente nervino sarin”, tenendo presente che il presidente Barack Obama a suo tempo aveva affermato che l’utilizzo di armi chimiche in Siria sarebbe stato considerato il superamento di un limite invalicabile.

Scrive l’editoriale di Ha’aretz: «L’amministrazione americana ha accolto la pubblica affermazione di fonti dell’intelligence israeliana secondo cui delle armi chimiche sono state usate da elementi del regime del presidente Bashar Assad contro civili siriani». Secondo l’editoriale «Obama non vuole essere risucchiato in una guerra siriana i cui esiti ed effetti non possono essere previsti. Per Israele, è un supremo interesse di sicurezza impedire che armi chimiche e missili finiscano nelle mani di Hezbollah o di jihadisti globali. È giusto che Israele agisca per salvaguardare il tabù sull’uso di gas, ma Israele non deve essere visto come qualcuno che interviene nella questione del coinvolgimento americano».

Secondo Boaz Bismout, su Yisrael Hayom, l’amministrazione Obama è riluttante a intervenire in Siria per tre motivi: «Primo, perché in Siria non è detto che aiutare i ribelli significhi davvero aiutare “i buoni” e non, ad esempio, i jihadisti di al-Qaeda che vogliono istituire emirati sunniti in Siria e in Iraq. Secondo, perché l’Iraq è profondamente impresso nella memoria degli americani e se, come allora, devono entrare in guerra per via delle armi di distruzione di massa, questa volta vogliono prove chiare e certe. Terzo, perché Obama vuole essere il presidente che pone fine alle guerre (Iraq e Afghanistan) e non quello che ne apre su nuovi fronti».

Scrive Ben-Dror Yemini, su Ma’ariv: «In questa vicenda non ci sono santi. Fra tutti, il regime di Assad è certamente terribile, ha perpetrato crimini di guerra, è sostenuto da Iran e Hezbollah. Ma non è chiaro cosa sia peggio, perché spesso in Medio Oriente l’alternativa è peggiore. In Egitto già sentono la mancanza di Mubarak. A quanto pare, molto probabilmente nel giro di pochi mesi non saranno solo i siriani a rimpiangere Assad. Obama aveva promesso. Ora se non interviene rischia di essere visto come il cane che abbaia ma non morde. E in Israele c’è già chi si affretta a sostenere che, se non interviene subito in Siria, allora non manterrà la sua parola nemmeno rispetto all’Iran. Affermazione superficiale: non si tratta della stessa storia né delle stesse circostanze. Dunque, a meno che non vi siano informazioni riservate che giustifichino l’intervento, sarebbe preferibile che Obama spiegasse che le circostanze sono cambiate e che non c’è ragione al mondo per aiutare i jihadisti a prendere il potere in Siria. A volte, solo a volte, i leader non devono fare quello che hanno promesso. A quanto pare, la vicenda siriana è una di quelle occasioni».

Scrive Ronen Bergman su Yediot Aharonot: «L’amministrazione statunitense davvero non vuole intervenire in Siria, come non voleva intervenire in Egitto e in Libia. Dal punto di vista di Obama, il pericolo di restare intrappolato è troppo forte». Tuttavia, secondo l’editorialista, la strategia americana e occidentale di enunciare una “linea rossa”, nella speranza che il solo fatto di enunciarla avrebbe dissuaso Assad dal valicarla, è fallita. L’editoriale irride l’appello di Washington per un indagine delle Nazioni Unite come una lampante manovra dilatoria. Ricordando il rifiuto dell’Onu di intervenire in Ruanda (nel 1994) nonostante le abbondanti prove che vi venisse perpetrato un genocidio, suggerisce all’amministrazione americana di «iniziare a scrivere il documento di scuse che verrà presentato fra dieci o vent’anni, in cui si chiederà perdono alle decine di migliaia di siriani che sono morti perché nessuno è venuto in loro aiuto».

(Da: Ma’ariv, Yediot Aharonot, Yisrael Hayom, Ha’aretz, 28.4.13)