Vaccinato in Israele, straordinariamente riconoscente, ora oso sperare

Un grande grazie a tutta la catena di persone meravigliose, all'estero e qui, che in meno di un anno sono riuscite a trovare un mezzo per contrastare il covid-19 e distribuirlo. Possa il resto del pianeta seguire l'esempio

Di David Horovitz

David Horovitz, autore di questo articolo

Sento un lieve, benedetto dolore al braccio destro. Mi auguro che possa segnare l’inizio della fine del nostro incubo collettivo. Mi sono appena seduto alla mia scrivania dopo essere stato vaccinato contro il covid-10, pochi minuti fa, dal personale della cassa mutua Maccabi all’Arena Stadium di Gerusalemme, una struttura per concerti e sport indoor da poco reclutata a servizio della battaglia contro la pandemia.

Sono vicino ai 60 anni, ma non li ho ancora compiuti. Tuttavia la cassa Maccabi ha iniziato a vaccinare gli over-55 con problemi di salute e a quanto pare la mia lieve forma di asma rientra nel novero, dal momento che mi è stato inviato un messaggio invitandomi a fissare un appuntamento insieme a mia moglie. E poi ci è stato permesso di far coincidere il nostro appuntamento con quello già fissato per i miei genitori, entrambi vicini ai 90.

Così, siamo partiti alla volta dell’Arena con due macchine, insieme all’indispensabile e intraprendente badante a tempo pieno di mia madre, e a mia sorella e mio cognato (entrambi over-60, entrambi già vaccinati dalla cassa mutua Meuhedet). Temevamo complicazioni, dovendo far arrivare i nostri due genitori in sedia a rotelle da casa all’auto, poi al centro vaccinazioni e ritorno. Quindi mia moglie aveva fatto in precedenza un sopralluogo, studiando la logistica del posto dove avremmo potuto sostare nella stretta strada che porta allo Stadium. Mi aspettavo ingorghi di traffico all’esterno e poi lunghe file di persone inevitabilmente impazienti, preoccupate ed esauste, troppo vicine fra loro, in attesa dell’agognata iniezione.

30 dicembre 2020: persone in attesa di essere vaccinate all’Arena Stadium di Gerusalemme

Certamente traffico ce n’era, ma si procedeva abbastanza agevolmente. Non ci hanno nemmeno clacsonato mentre trasferivamo con cura i nostri genitori dai sedili dell’auto alle sedie a rotelle. Un addetto alla sosta è intervenuto per indirizzare me e mio cognato in una zona di parcheggio libera, mentre il resto del gruppetto prendeva l’ascensore fino all’ingresso dell’Arena. Quando li ho raggiunti, avevano già ricevuto un numero e mia moglie stava compilando un breve modulo per ciascuno di noi: una mezza dozzina di domande tipo sì/no circa allergie, temperatura e altri dati basilari. Un grande schermo mostrava 50 persone in coda davanti a noi, ma i numeri scorrevano velocemente. Il tempo di attesa sarebbe stato chiaramente breve. Senonché non abbiamo aspettato per niente. Un membro dello staff, vedendo le sedie a rotelle, ci ha accompagnati direttamente a uno degli stand dove la vaccinazione era in pieno svolgimento. Itai, un paramedico, e Dror, il suo collega, hanno ricontrollato i nostri moduli passando scioltamente dall’ebraico all’inglese per essere sicuri che i miei genitori capissero tutto, e hanno speditamente somministrato le iniezioni, prestando la massima attenzione alla mia fragile mamma. Poi ci hanno congedato, con la sola raccomandazione di attendere 15 minuti all’ingresso come forma di precauzione.

Il processo è stato straordinariamente fluido e so bene che l’esperienza non può essere stata così tranquilla per tutti. Ma so anche che Israele avrà vaccinato qualcosa come un decimo della propria popolazione prima della fine della settimana, se i tassi attuali verranno mantenuti, e abbiamo iniziato la campagna solo una decina di giorni fa, inizialmente limitata agli operatori sanitari. Un paese purtroppo ben noto per pastoie burocratiche ha saputo lanciare in brevissimo tempo un’operazione di vaccinazione a livello nazionale senza precedenti: database su computer approntati per la gestione logistica, centri di vaccinazione attrezzati, personale assunto e formato, milioni di preziose dosi di vaccino acquistate, importate e distribuite. Una gigantesca operazione che funziona in modo così efficace che ha fatto notizia il più piccolo degli incidenti (poche centinaia di dosi Pfizer refrigerate andate sprecate perché hanno superato la data di scadenza).

Un insegnante riceve il vaccino anti-coronavirus presso lo Shamir Medical Center di Be’er Ya’akov

I giornali hanno riferito della preoccupazione che l’attuale ritmo di 150.000 dosi al giorno possa rallentare all’inizio del mese prossimo quando le scorte scenderanno, prima di accelerare di nuovo a febbraio. Ma ci sono anche segnali secondo cui i produttori di vaccini sarebbero ansiosi di garantire che Israele possa mantenere la sua attuale posizione in testa alla campagna di vaccinazione mondiale in modo che l’intero paese possa servire da modello e banco di prova statistico per il resto del pianeta.

Naturalmente, in un paese che si avvia alla sua quarta tornata elettorale in due anni, la gara tra virus e vaccino (mentre i casi di contagio aumentano pure durante il terzo lockdown) viene anche ampiamente vista sotto una luce politica: riuscirà il ruolo da protagonista assunto dal primo ministro Benjamin Netanyahu, sia come capo-negoziatore per la fornitura dei vaccini sia come primo vaccinato esemplare, a immunizzarlo da un’eventuale sconfitta elettorale a marzo? Ma questi sono temi di cui discutere in un altro momento, e senza dubbio in altri editoriali.

Per ora, voglio semplicemente dire un grande grazie a tutta la catena di persone sapienti e meravigliose, all’estero e in patria, che in meno di un anno sono riuscite a trovare un mezzo per contrastare il covid-19 e hanno iniziato a distribuirlo. E voglio esprimere riconoscenza per il privilegio di essere stato fra i primi destinatari, e apprezzare il modo in cui la tipica propensione israeliana a “mettercela tutta e farcela a ogni costo” ha trionfato finora su ogni ostacolo. E voglio sperare che il resto dell’umanità possa seguire l’esempio nel modo più rapido e sicuro possibile. Voglio augurarmi che d’ora in poi i leader mondiali diano priorità alle terapie e, soprattutto, alla ricerca&sviluppo e alle misure sanitarie preventive per salvaguardare l’umanità e il nostro pianeta, ridestinando in modo massiccio le risorse ora che la scienza ha dimostrato le sue straordinarie capacità quando viene adeguatamente finanziata e supportata.

Da marzo mia madre non era più uscita di casa se non per visite mediche. La sua uscita di oggi e la sua seconda uscita per la dose di richiamo fra tre settimane saranno, spero, la sua liberazione. Da marzo non l’avevamo più nemmeno abbracciata. Oggi, quando l’abbiamo riportata a casa, mi sono permesso di baciarla brevemente con dolcezza sulla testa, attraverso la mia mascherina e il suo copricapo. L’intera spedizione per vaccinarci ha richiesto il tempo che mi ci è voluto per scrivere questo articolo. E, nel caso ve lo stiate chiedendo, quel piccolo dolore al braccio è già sparito.

(Da: Times of Israel, 30.12.20)