Vent’anni fa l’intifada cambiò tutto, ma per tanti osservatori stranieri è storia antica e da dimenticare

Il bagno di sangue in risposta a coraggiose aperture diplomatiche demolì definitivamente negli israeliani l’idea che ci fosse un partner affidabile con cui fare la pace

Di Jonathan S. Tobin

Jonathan S. Tobin, autore di questo articolo

Il mondo dell’autunno 2000 sembra assai più remoto di 20 anni fa: era prima del covid-19, prima che ci fosse l’idea di un presidente Donald Trump o Barack Obama, prima di Facebook e Twitter, prima di una grande recessione, prima dell’11 settembre e delle guerre in Afghanistan e Iraq, in Siria e Libia. I primi due movimentati decenni del XXI secolo sono stati pieni di eventi che sembrano aver cambiato tutto.

Uno tra i più significativi, almeno per quanto riguarda il Medio Oriente e la diplomazia internazionale, è la “seconda intifada”, scoppiata negli ultimi giorni del mese di settembre 2000 e continuata fino agli inizi del 2005. Eppure, benché “l’intifada delle stragi suicide” abbia trasformato radicalmente il modo in cui la stragrande maggioranza degli israeliani guarda al processo di pace, le sue conseguenze non sembra che abbiano mai fatto una grande impressione sulla maggior parte degli osservatori stranieri, tra cui anche molti ebrei americani, né sull’establishment della politica estera americana e occidentale, né sul grosso della stampa internazionale: tutti ancora in gran parte aggrappati alla mentalità pre-intifada, tutti ambienti che hanno largamente dimenticato cosa accadde in quegli anni e il suo significato, ammesso e non concesso che l’abbiano mai effettivamente visto e capito.

Questo disastroso fiasco, in termini sia di comprensione che di memoria, è importante non solo perché favorisce una lettura falsata della storia, ma anche perché può darsi che le persone che saranno chiamate a gestire la politica estera degli Stati Uniti per i prossimi quattro anni siano proprio quelle che hanno lasciato cadere la “seconda intifada” in un orwelliano buco nero della memoria.

18 giugno 2002: ennesimo attentato palestinese contro un autobus a Gerusalemme (19 morti, 74 tra feriti e mutilati)

La secondo intifada – una vera e propria guerra terroristica di logoramento lanciata dall’Autorità Palestinese e dal suo capo di allora, Yasser Arafat – costò la vita a più di mille israeliani e molti più palestinesi. La campagna di attentati terroristici sistematicamente mirati contro i civili israeliani, oltre ai soldati, venne condotta da persone e gruppi gestiti da Fatah, la fazione di Arafat al governo, e dal gruppo islamista Hamas, con le due fazioni che facevano a gara su chi riusciva e versare più sangue di ebrei. Il problema nel parlare di quell’intifada è che, nonostante i fatti relativi al suo scoppio sono praticamente fuori discussione, molti resoconti di quegli eventi nei principali mass-media sono tuttora inattendibili e spesso totalmente falsi. Come dimostra uno studio pubblicato da CAMERA, un organismo di monitoraggio dei mass-media, grandi organi d’informazione come la Associated Press continuano a diffondere disinformazione su ciò che avvenne.

Due sono i principali vizi, nella maggior parte dei resoconti sugli inizi dell’intifada. Innanzitutto la maggior parte omette o distorce gli eventi che la precedettero immediatamente. Due mesi prima, l’allora primo ministro israeliano Ehud Barak aveva incontrato Arafat e il presidente Bill Clinton a Camp David e aveva offerto ai palestinesi uno stato indipendente a Gaza, quasi tutta la Cisgiordania e una parte di Gerusalemme. Con grande sgomento di Barak e Clinton (che già immaginava di ricevere il premio Nobel per la pace per aver facilitato i negoziati), Arafat disse “no”. E’ un fatto perfettamente assodato, eppure viene costantemente dimenticato o perversamente distorto pur di giustificare in qualche modo la furia palestinese. Gli apologeti di Arafat, compresi alcuni membri dell’amministrazione americana, cercano di sostenere (con argomenti diversi e a volte contraddittori) che i palestinesi avevano ragione di rifiutare un’offerta che garantiva loro, con poche modifiche, ciò che avevano sempre proclamato di volere. Clinton non ha mai perdonato ad Arafat di avergli rovinato la possibilità di passare alla storia.

Abdel-Elah Atirs, del Consiglio Rivoluzionario di Fatah, intervista a TV Palestina, 1.1.2020: “(Arafat) tornò (da Camp David) e ci suggerì di lanciare la seconda Intifada”. Clicca la foto per il video con sottotitoli in inglese

L’altra menzogna sull’intifada è che quei cinque anni di stragi siano stati in qualche modo una conseguenza del fatto che Ariel Sharon, all’epoca leader dell’opposizione israeliana, fece una visita (concordata) sul Monte del Tempio di Gerusalemme che, a posteriori, venne descritta come una terribile provocazione. Il che è falso per una serie di ragioni.

In realtà, lungi dall’essere una reazione spontanea a un’offerta di pace “offensiva” o al gesto “provocatorio” di un israeliano, l’intifada fu voluta e pianificata da Arafat. Già nel marzo 2001 la Associated Press citava un membro del governo palestinese che ammetteva che il suo capo aveva iniziato a tramare un’offensiva terroristica sin dal luglio 2000, subito dopo aver ripudiato l’iniziativa di pace israeliana e americana (successivamente si sono aggiunte altre testimonianze in questo senso, compresa quella della stessa moglie di Arafat, Suha ndr). Arafat aveva fomentato, pianificato e finanziato il terrorismo per tutti i sette anni precedenti, dopo la firma degli accordi di Oslo del 1993 con cui i palestinesi si erano impegnati a rinnegare la violenza e porre fine alla loro lunga guerra contro l’esistenza di Israele. In realtà, il capo palestinese ingannò il compianto primo ministro Yitzhak Rabin che, fino al suo tragico assassinio nel 1995, credette che l’Autorità Palestinese i terroristi li avrebbe combattuti, non supportati e diretti.

Ciò che fece seguito alla decisione del 2000 di Arafat fu una campagna di attentati suicidi e agguati armati che sconvolse nel profondo la società israeliana. Le stragi – alcune delle quali sono rimaste tristemente famose, come l’attentato alla discoteca Dolphinarium sul lungomare di Tel Aviv del giugno 2001, quello alla pizzeria Sbarro di Gerusalemme dell’agosto 2001 e il massacro della Pasqua ebraica del marzo 2002 al Park Hotel di Netanya – sono ferite che bruciano nel ricordo degli israeliani. Altrettanto importante fu il costante senso di paura che un attentato facesse esplodere in qualunque omento un autobus o un  locale pubblico, cosa che rendeva estremamente difficile, quasi eroico, attendere alle più comuni attività quotidiane.

Ma la cosa importante che non bisognerebbe mai dimenticare sull’intifada, 20 anni dopo, non è tanto il trauma vissuto dagli israeliani, ma il fatto che Arafat, reagendo con quel bagno di sangue alle più coraggiose aperture di pace, demolì definitivamente l’idea che vi fosse un partner affidabile con cui fare la pace. E’ questa consapevolezza, e il tragico modo con cui si impose, ciò che ha distrutto la sinistra israeliana e ha ridotto a pochi elementi isolati i sostenitori delle politiche in stile Oslo, tanto che oggi i molti che in Israele si oppongono al primo ministro Benjamin Netanyahu lo fanno per svariate ragioni, ma sono sostanzialmente d’accordo con lui sulle questioni palestinesi.

Se i palestinesi avessero voluto davvero una soluzione a due stati che desse loro l’indipendenza accanto a Israele avrebbero potuto averla nell’estate del 2000 o all’inizio del 2001, quando Barak ribadì la sua offerta (a intifada già scoppiata), o nel 2008 quando Ehud Olmert presentò una proposta ancora più accattivante al successore di Arafat, Abu Mazen. Per gli osservatori stranieri queste cose sono solo storia antica, oppure fatti scomodi che devono essere dimenticati in nome della ricerca della pace. Ma gli israeliani, la maggior parte dei quali aveva salutato il processo di Oslo come una vera possibilità di porre finalmente termine al conflitto anche a costo di dolorose concessioni territoriali, sanno perfettamente perché quei fatti sono importanti. Furono costretti a concludere che Arafat non aveva mai voluto la pace. Videro lo spargimento di sangue e la necessaria costruzione di una barriera di sicurezza, che ha in gran parte posto fine alla minaccia di attentati suicidi, come la prova definitiva che i palestinesi, sia i cosiddetti moderati di Fatah che gli estremisti di Hamas, sono tuttora votati a cancellare Israele.

C’è da augurarsi che gli eventi degli ultimi quattro anni, dalle iniziative dell’amministrazione Trump su Gerusalemme alla pace tra Israele e due importanti stati del Golfo, abbiano smontato la mentalità pre-intifada. Ma potrebbe non essere così. Durante i suoi otto anni al timone, l’amministrazione Obama ha cercato di convincere gli israeliani a ignorare la lezione dell’intifada delle stragi, nonostante Abu Mazen continuasse a rifiutare la pace e negoziati seri. C’è da augurarsi che la prossima amministrazione non riprenda a cavalcare l’idea che l’unica via per la pace sia esercitare sempre maggiori pressioni sugli israeliani, e non sui palestinesi. A vent’anni di distanza, molti americani e occidentali stentano ancora a capire cosa ha significato e cosa ha insegnato agli israeliani l’intifada delle stragi circa le intenzioni e gli obiettivi dei palestinesi. Sarebbe indegno se questa ostinata ignoranza portasse a una politica che incoraggiasse di nuovo i palestinesi a usare la violenza per promuovere la loro illusione di un mondo senza Israele.

(Da: jns.org, 2.10.20)