Ventun anni fa, gli Scud di Saddam su Israele

Quando gli israeliani rinunciarono a difendersi pur di salvaguardare la coalizione internazionale.

image_3336Il 17 gennaio 1991 gli Stati Uniti e una coalizione di paesi arabi e occidentali (tra cui l’Italia) iniziarono a bombardare l’Iraq per costringerlo a ritirare le sue forze dal vicino Kuwait, che Saddam Hussein aveva completamente invaso cinque mesi prima. Ma la guerra fece sentire i suoi effetti ben al di là del mero controllo da parte dell’Iraq sui campi petroliferi del Golfo. Tenendo fede alle sue minacce, Saddam lanciò decine di missili Scud contro Israele (che non faceva parte della coalizione): era la sua rappresaglia per la guerra da lui stesso provocata. Quella guerra, inoltre, ebbe gravi conseguenze per i palestinesi che vivevano nei paesi del Golfo e per la posizione internazionale della dirigenza dell’Olp.
Sin dall’inizio, l’allora presidente iracheno cercò di creare un “linkage”, un collegamento artificioso tra il conflitto israelo-palestinese e lo sforzo internazionale volto a costringerlo a ritirarsi dal Kuwait. In uno dei suoi primi tentativi di impedire l’intervento militare occidentale contro il suo regime, Saddam – fedele alleato dell’allora presidente dell’Olp Yasser Arafat – propose che venissero “risolti contemporaneamente tutti i casi in Medio Oriente di occupazione, o che vengono descritti come occupazione”. Per una serie di ragioni, tra le quali innanzitutto il rifiuto dell’occidente di dare la sensazione che l’invasione del Kuwait venisse in alcun modo premiata, la sua offerta venne immediatamente respinta.
Ma il tentativo di Saddam di trascinare Israele nella guerra era molto più strategico che ideologico. Sapeva che se Israele fosse entrato in guerra, gli alleati arabi cooptati dagli Stati Uniti nella coalizione si sarebbero trovati in una situazione estremamente complicata. Sia Saddam che l’occidente erano convinti che in quel caso i paesi arabi avrebbero ritirato il loro appoggio allo sforzo bellico contro l’Iraq. Per questa ragione l’allora presidente americano George H.W. Bush (padre) si adoperò molto per fare pressione su Israele affinché non reagisse agli Scud iracheni. E per impedire che gli Scud causassero una quantità di danni tale da scatenare la risposta israeliana, gli Stati Uniti schierarono rapidamente in Israele delle batterie di difesa anti-missilistica Patriot e dedicarono, a quanto risulta, un terzo del loro sforzo bellico in Iraq alla ricerca e distruzione delle rampe di lancio di Saddam: compito non facile, considerando che gli Scud erano montati su rampe mobili sparse in tutto il deserto occidentale iracheno.
Quando, quel 17 gennaio 1991, i primi Scud vennero lanciati dall’Iraq sulla regione centrale di Israele, lo stato ebraico era comunque pronto a reagire. I jet delle forze aeree israeliane in effetti iniziarono a volare nei pressi del confine occidentale del paese del Golfo, ma non lanciarono mai un attacco. Alcuni giorni dopo l’esplosione dei primi Scud, venne preparata una missione segreta di commando: truppe d’elite delle forze speciali israeliane vennero effettivamente caricate su elicotteri per un rapido intervento in Iraq, ma una telefonata dalle più alte sfere di Washington trattenne gli apparecchi sulla pista.
Mentre nell’immaginario collettivo dell’occidente la guerra del Golfo per la liberazione del Kuwait è rimasta nella memoria come “la prima guerra televisiva”, con le famose dirette serali della CNN che mostravano per la prima volta i missili Cruise lanciati dalle navi americane, in Israele immaginario e memorie di quella guerra sono assai differenti. Una delle immagini più durature in Israele fu quella dell’allora portavoce delle Forze di Difesa israeliane Nachman Shai, oggi parlamentare di Kadima, che andava in onda sulla tv di stato per dire agli abitanti d’Israele di chiudersi nelle “stanze sigillate” che avevano dovuto approntare in ogni abitazione in vista del conflitto. Successivamente Shai sarebbe stato canzonato per quel suo ricordare continuamente agli israeliani di “bere acqua”, ma all’epoca la condizione fu quella di un trauma per tutto il paese, specialmente nella regione centrale che durante le sei settimane di guerra venne bombardata da 41 Scud (quasi sempre di notte).
In quel momento Israele e occidente temevamo che Saddam Hussein lanciasse missili con testate cariche di sarin o di gas nervino, un timore che fortunatamente non si materializzò. Per proteggersi da una minaccia che allora era assai concreta (solo tre anni prima, a Halabja, Saddam aveva usato i gas contro la sua stessa popolazione curda), Israele aveva dotato tutti gli abitanti di maschere anti-gas e fiale di antidoto. La frase in codice per dire agli israeliani di precipitarsi ad indossare la maschera antigas, “Nahash Tsefa” (serpente vipera), trasmessa insieme al suono così familiare in Israele delle sirene dell’allarme anti-aereo, è ancora oggi strettamente legata al ricordo di quei giorni per tutti gli israeliani l’hanno vissuto personalmente. Enorme fu il trauma: Israele, il paese nato dall’ethos sionista del “prendere nelle proprie mani il proprio destino”, per non innescare il riflesso pavloviano anti-israeliano che domina nel mondo arabo dovette subire l’ennesima ingiustificata aggressione senza poter reagire, ed anzi affidando la propria difesa all’intervento altrui e alla protezione passiva di camere e maschere anti-gas, con tutto ciò che la parola “gas” evoca, al solo nominarla, nella società israeliana.
Sebbene alla fine gli israeliani uccisi direttamente dai missili Scud furono non più di due, migliaia furono i feriti. Non basta. I missili si rivelarono, in quell’occasione, armi molto efficaci per spargere il terrore (non è un caso se, dopo di allora, vari movimenti terroristi come Hezbollah e Hamas si sarebbero adoperati molto per dotarsi di un apparato di razzi e missili come prima non avevano mai pensato di fare). Vi fu poi un certo numero di israeliani, soprattutto anziani, che – in preda al panico mentre i missili piovevano sulle loro città – dovettero essere ricoverati perché si erano iniettati a sproposito l’antidoto del gas nervino o avevano sofferto attacchi di cuore. Anche se le vittime dirette furono relativamente contenute considerata la quantità di ordigni lanciata, migliaia di cittadini rimasero senza casa per le estese distruzioni.
Intanto, il sostegno che Yasser Arafat aveva garantito a Saddam Hussein durante la guerra provocava durevoli conseguenze sul conflitto israelo-palestinese e sui palestinesi che vivevano in altri paesi. Per vendicarsi della posizione di Arafat, schierato a fianco di Saddam, il Kuwait subito dopo la guerra non esitò ad espellere quasi mezzo milione di palestinesi che avevano vissuto fino ad allora nel paese, in un’operazione che venne definita come una vera e propria pulizia etnica. Prima della guerra, i palestinesi costituivano fino al 30% della popolazione del Kuwait, dopo la guerra solo il 3%. Di più. Il sostegno dell’Olp a Saddam condusse, dopo la guerra, all’isolamento della dirigenza palestinese, forse non l’ultimo dei fattori (insieme al concomitante crollo dell’Urss) che avrebbe poi spinto Arafat a scendere a patti, o per lo meno a far mostra di scendere a patti, a Madrid nell’autunno 1991 e a Olso nel 1993.

(Da: Michael Omer-Man su Jerusalem Post, e israele.net, 15-16.1.12)

Nelle foto in alto: gennaio 1991, una famiglia israeliana nella “stanza sigillata” durante un attacco di Scud iracheni; case distrutte da Scud iracheni nel quartiere Ezra di Tel Aviv e in Via Yona, a Ramat Gan.