“Vorrei avere a disposizione altri cento anni per scrivere i capitoli della mia vita di cui non riesco ancora a parlare”

A un mese dalla morte, ricordiamo il grande scrittore israeliano, testimone della Shoà

Aharon Appelfeld (1932-2018)

Lo scorso 3 gennaio è mancato lo scrittore israeliano Aharon Appelfeld.

Nato nel 1932 a Czernowitz, Bucovina, fu deportato insieme al padre in un campo di concentramento in Transnistria, dal quale fuggì, nascondendosi per i successivi tre anni nelle foreste e si unì all’Armata Rossa dove prestò servizio come cuoco. Durante la seconda guerra mondiale Appelfeld perse nei lager la madre e i nonni. Alla fine della guerra raggiunse l’Italia e da qui si imbarcò nel 1946, per approdare in Palestina, a quel tempo sotto Mandato britannico. Laureatosi all’Università di Gerusalemme in letteratura, ha poi insegnato letteratura ebraica all’Università Ben Gurion del Negev a Beer Sheva. Nonostante abbia appreso l’ebraico tardi nella sua vita, Appelfeld è diventato uno dei più importanti scrittori israeliani del XX secolo, ha insegnato letteratura ebraica all’Università Ben Gurion ed è stato membro dell’American Academy of Arts and Sciences. I suoi libri sono tradotti in tutto il mondo in 28 lingue. Per le sue opere ha ricevuto numerosi premi tra cui il Premio Israele, il Premio Mèdicis in Francia e il Premio Napoli in Italia. (Da: mosaico-cem.it, 4.1.18)

Per un’accurata presentazione di testi disponibili in italiano di e su Appelfeld rimandiamo all’articolo di Gabriele Scaramuzza “Per Aharon Appelfeld” in Odissea,  gennaio 2018.

A un mese dalla scomparsa dello scrittore israeliano, lo ricordiamo pubblicando un brano tratto dalla sua autobiografia che Appelfeld lesse personalmente al Convegno “Per ricostruire e ricostruirsi. Astorre Mayer e la rinascita ebraica tra Italia e Israele”, tenutosi tra Gerusalemme e Milano nei giorni 25 marzo e 12 aprile 2007 su iniziativa dell’Associazione Italiana Amici dell’Università di Gerusalemme.

A seguire, pubblichiamo un’intervista inedita ad Appelfeld scritta da Claudia Rosenzweig nel 2006.

L’uomo dal quale ho imparato a pregare non era una persona piacevole. Mi trovavo in un campo di transito per la Palestina, in una di quelle baracche lunghe e brutte nelle quali si ammassavano centinaia di profughi. Gli uomini giocavano a carte, bevevano vodka e se la facevano con le donne alla luce del giorno. Negli angoli bui di quelle stesse baracche alcune persone pregavano di mattina e di sera. Non molti: riunire dieci persone era sempre difficile. Gli uomini rifiutavano di partecipare, anche solo di presenziare. Bisognava convincere, addirittura implorare. Dopo la guerra la fame di vita era prepotente, e la preghiera disprezzata.
Se fosse stato possibile pregare da soli sarebbe stato più facile, ma che fare? Agli ebrei è stato comandato di essere almeno in dieci per pregare. All’ingresso di ogni baracca trovavi, ogni mattina ed ogni sera, un uomo basso, grigio ed informe, che cercava di convincere ad unirsi alla preghiera e, dal momento che la persuasione non aiutava, mi­nacciava punizioni, risvegliava antichi sensi di colpa o, semplicemente, accusava. Non c’è da stupirsi se questi uomini erano disprezzati. Li maltrattavano, li insultavano e, se persistevano nel minacciare punizioni celesti, li picchiavano senza pietà.
Ma, nonostante tutto, un minian si radunava mattina e sera: gli uomini arrivavano, chi di sua spontanea volontà e chi dopo essere stato convinto. Questa perseveranza faceva impazzire la gente. Non passava giorno senza discussioni, accuse reciproche ed insulti. E di nuovo, come dopo ogni guerra, dagli abissi emergevano parole che non si sentivano da anni.
Avevo allora tredici anni, e la preghiera mi attraeva. Gli oranti non mi accoglievano con benevolenza ma, al contrario, con disprezzo, eppure io non mancavo ad una sola preghiera. La melodia, la melodia triste e monotona, mi ammaliava.
«Ti sarò grato se mi insegnerai a pregare», mi rivolsi ad uno degli oranti.
«Neanche per sogno», disse senza guardarmi.
Un altro, che aveva udito la mia richiesta, aggiunse: «È un faccenda complicata, a cosa ti serve?».
A quei tempi i bambini erano in pericolo: impresari, cambiavalute, contrabbandieri e semplici ladri affidavano loro incarichi pericolosi. Più di una volta capitò che un bambino fosse incarcerato dalla polizia, e percosso perché aveva paura di rivelare il mandante. C’erano anche bambini audaci che lavoravano in bande, trafugavano merci da un posto all’altro, e passavano le notti nei bordelli di Na­poli. Nessuno osava insidiarli: chi li contrastava era in pericolo, perché non conoscevano paura. Nei dintorni di Napoli agivano tre bande di bambini. A volte scoppiava tra loro una guerra. Erano guerre feroci, con feriti e morti, ma la maggioranza dei bambini era debole e passiva, e obbediva agli ordini degli adulti.
Mi feci nuovamente coraggio e chiesi ad uno degli oranti di insegnarmi a pregare. Questi mi squadrò severamente, e chiese: «Perché non l’hai imparato a casa?».
Gli rivelai la verità: «I miei genitori non erano religiosi».
«Se loro non erano religiosi, perché dovresti esserlo tu?».
Non avevo risposta, e dissi: «Voglio pregare».
«Tu non sai quello che vuoi» disse, e mi voltò le spalle.
All’approssimarsi dell’autunno le baracche cominciarono a vuotarsi. Una piccola parte dei superstiti salpò per la Palestina, la maggioranza verso l’Australia e l’America. Fuori faceva freddo, e le partite di poker si infiammavano, non senza litigi. Uno dei contrabbandieri mi persuase ad unirmi alla sua banda, per guadagnare cinquanta dollari in un solo viaggio. Avevo sentito parlare molto di questi viaggi, degli scontri con la polizia di frontiera e dei traditori che consegnavano i contrabbandieri. Generalmente partivano in sette, e uno veniva sempre catturato o ucciso.
Il desiderio di pregare cresceva in me di giorno in giorno. Era una sete molesta, della quale non conoscevo l’origine, che ogni giorno si rinnovava e tornava a torturarmi. Uno degli oranti, che aveva notato il mio tormento, mi parlò con calma, senza animosità, dicendo: «Tu stai per partire per la Palestina. In Palestina si lavora nei kibbutzim, e non si prega». Alla fine uno degli oranti acconsentì ad insegnarmi. Era un uomo robusto, di brutto aspetto, che biascicava e borbottava. Lesse con me alcune volte le grandi lettere all’inizio del libro giallo in cui erano scritte le preghiere e concluse, impassibile: «Ora va’ e ripeti».
Continuai a ripetere per due giorni, senza successo. Ogni volta che sbagliavo mi dava uno schiaffo. Potevo lasciare il luogo e trasferirmi in un altro campo, ma per qualche motivo ero convinto che la conquista della preghiera fosse legata alla sofferenza, ed accettai il dolore. Uno degli oranti, vedendo che schiaffi ricevevo, si rivolse al mio insegnante per chiedergli: «Perché picchi l’orfano?».
«Per fargli entrare in testa le lettere».
«Non si picchia un orfano».
«Non gli farà male».
Studiare le lettere ebraiche era difficile, e più di una volta fui sul punto di abbandonare il posto e l’uomo, ma per qualche ragione non seguii la mia volontà. Uno dei profughi, vedendo la mia afflizione, non poté resistere, e disse: «Un ragazzo della tua età si occupa di cose più importanti. Non hai ancora imparato la lezione?». Non so a quale lezione alludesse. Io, ad ogni modo, amavo la preghiera. Il pensiero che un giorno anch’io avrei potuto stare col Siddur stretto in mano, e pregare, era più potente delle offese che subivo.
Anche leggere le preghiere fu difficile. Per ogni errore ricevevo una botta o uno schiaffo. Quell’uomo forte non mi risparmiava: a volte avevo l’impressione che mi picchiasse per sradicare da me ogni attrazione per la preghiera.
Per due mesi imparai a pregare da Pinni. Poi Pinni ottenne un visto e salpò per l’Australia. Si congedò dal gruppo con il quale pregava con una bottiglia. I suoi amici commercianti non parlarono né si rallegrarono. Io fui ignorato.
Ero contento che fosse partito. La sua ottusità, l’indifferenza e la fredda ira continuarono a spaventarmi anche quando fu lontano da me, ma malgrado tutto la preghiera che lui mi aveva trasmesso mi dava gioia.
Un mese dopo la sua partenza cominciai a pregare spe­ditamente. La sensazione di poter seguire chi conduceva la preghiera e ripetere i versi insieme agli altri mi infondeva coraggio. Perfino i grigi commercianti, apatici ed egoisti, mi sembravano amabili.
Naturalmente mi sbagliavo. Uno di loro mi propose di partecipare ad un contrabbando di sigarette verso la Sicilia, e quando rifiutai mi minacciò: «Guai a te se ti rivedo qui!». La minaccia mi parve reale, e smisi di partecipare alla preghiera.
Per mia fortuna quella stessa settimana ci trasferimmo in un altro campo, e l’attrazione per la preghiera venne meno.
Dalla guerra emersero molti bambini strani, ma Shiko era unico. La sua memoria, si diceva, non aveva limiti. Poteva ripetere senza sbagliare trenta numeri come se fossero non trenta, ma tre. La prima volta che lo vidi eravamo in un campo profughi in Italia, in attesa di imbarcarci per la Palestina. A quei tempi girava con un gruppo di artisti bambini di sette e otto anni. C’erano giocolieri, mangiafuoco, e un bimbo che camminava su un filo legato fra due alberi; c’era anche una cantante bambina, Amalia, con una voce da usignolo. Non cantava in una lingua precisa bensì in una lingua tutta sua, un miscuglio di parole che ricordava da casa, di voci dei pascoli, di suoni del bosco e di preghiere del convento. Chi l’ascoltava, piangeva. Era difficile sapere cosa cantava: pareva sempre che raccontasse una lunga storia piena di particolari segreti. Un amico di sette anni dan­zava al suo fianco, e a volte solo. Ad Amalia piaceva guardarlo ballare, come fosse la sua sorella maggiore. Avevano la stessa età, o forse era ancora più giovane di lui, ma il suo sguardo era maturo e preoccupato: sembrava volerlo proteggere sotto le proprie ali. Un altro suonava tristi canzoni russe su un’armonica a bocca. Aveva sei anni, ma ne dimostrava meno. Gli preparavano una cassetta, sulla quale montava per suonare.
Queste piccole compagnie nascevano per le strade e si spostavano da un campo all’altro, intrattenendo durante la notte uomini stanchi della guerra e di se stessi. A quei tempi nessuno sapeva cosa fare della vita che aveva salvato. Non c’erano parole: quelle rimaste da casa suonavano vuote. A volte compariva un emissario dell’Agenzia ebraica: le parole fluivano dalle sue labbra, ma erano parole d’anteguerra, ed avevano il gusto di un cibo insipido. Solo i bambini piccoli avevano conservato un linguaggio fresco. Specifico piccoli perché all’età di dodici o tredici anni erano già corrotti: commerciavano, contrabbandavano, rubavano e saccheggiavano, come gli adulti; ma a differenza degli adulti erano agili. Gli anni nei boschi avevano insegnato loro a saltare, ad arrampicarsi e a correre chini: avevano imparato osservando a lungo gli animali.
Allora non sapevamo ancora che la lingua dei bambini era una lingua nuova. Questa lingua si manifestava in tutto il loro essere: nel modo di tenersi in piedi o di sedere, di cantare e parlare. Il loro
All’epoca Shiko aveva sette anni e, come ho detto, la sua memoria strabiliava gli ascoltatori. Inizialmente si limitava a ripetere molti numeri senza sbagliare, e in seguito il suo impresario gli insegnò a narrare storie, che lui raccontava senza errori. Ma l’impresario, un uomo astuto, avendo capito molto in fretta che Shiko era una miniera d’oro, agì di conseguenza: gli insegnò alcuni salmi, la preghiera El malé rachamim e il Qaddish dell’orfano. L’impresario, che era figlio di un chazzan, un cantore in sinagoga, gli insegnò a pregare come si faceva in passato, e in breve Shiko ricordava tutto a memoria. Della compagnia di Shiko facevano parte il piccolo acrobata, il suonatore di armonica ed Amalia col suo buon amico, ma Shiko li eclissava tutti: si esibiva sempre per ultimo, e lo spettacolo era suo. Bisogna ammettere che la preghiera di Shiko era differente da ogni altra che le orecchie avessero mai sentito: non era una preghiera di pianto o di supplica, ma una preghiera semplice, senza ornamenti né trilli, una preghiera diretta quale solo gli antichi padri conoscevano.
Tutti gli occhi erano puntati su Shiko. Donava alle persone ciò di cui a quei tempi avevano bisogno: un pizzico della fede dimenticata ed un contatto coi cari perduti. Era difficile capire se Shiko comprendeva le parole che pronunciava, ad ogni modo la sua preghiera era tanto limpida e spontanea che gli ascoltatori piangevano come bambini.
Il successo era tale che gli altri membri della compagnia smisero di esibirsi: Shiko riempiva l’intera serata. «È poco più di un lattante», dicevano, «ma è un bambino prodigio, una reincarnazione: non si è mai visto un bambino di sette anni che conosca a memoria l’intero libro delle preghiere».
Il suo impresario accumulava una fortuna trascinando la sua piccola compagnia da un posto all’altro. Shiko si esibiva ogni sera, ed a volte anche di giorno. L’impresario si preoccupava di farlo bere e mangiare, e se Shiko rifiutava il cibo lo rimproverava e lo costringeva. Shiko mangiava ed ingrassava. Era un miracolo: malgrado Shiko ingrassasse e si esibisse di frequente, la limpidezza della sua voce non diminuiva, anzi aumentava col passare delle settimane. Chi l’aveva sentito una volta, lo seguiva. Le cose andarono avanti in questo modo per tutta l’estate. D’inverno l’impresario sistemò un baracca abbandonata, la riempì di panche e mise un guardiano all’ingresso. Era sicuro che i suoi guadagni sarebbero aumentati.
Ma la baracca, tanto promettente, non portò fortuna: la sera dell’inaugurazione Shiko prese un raffreddore e si mise a letto, tremante di febbre. Rimase febbricitante per due settimane e, quando alla fine si riprese, aveva dimenticato le preghiere. L’impresario faticò inutilmente nel tentativo di insegnargliele di nuovo: uno stupore azzurro si era insediato negli occhi di Shiko, che sembrava non capire ciò che gli si diceva. «Shiko, Shiko», lo scuoteva l’impresario. Shiko non tornò più ad essere ciò che era stato.
L’impresario, disperato, portò sul palco Amalia, il suo compagno e il suonatore di armonica. Erano bravissimi e diedero il meglio di sé, ma non potevano competere con Shiko. «Dov’è Shiko?» ruggiva il pubblico, frenando a stento la rabbia. L’impresario fu costretto a farlo montare sul palco, affinché tutti vedessero che era vivo, e Shiko, che fino ad un mese prima saliva svelto ed immediatamente esordiva con una preghiera, rimase raggelato sul palcoscenico: dai suoi occhi azzurri emanava uno stupore spaventoso.
Fu così che la sua stella tramontò. Amalia, il suo amico, ed il resto della compagnia fecero sforzi immani, ma il pubblico non era disposto a spendere molto per i biglietti del loro spettacolo. Di notte l’impresario rimproverava a Shiko di essere pigro e di non volersi sforzare. Giunse a minacciare di spedirlo in Palestina, dove fa molto caldo e la gente lavora dal mattino alla sera. Era difficile sapere cosa pensasse Shiko: evidentemente le parole dell’impresario lo addoloravano, perché serrava le labbra e un movimento involontario gli contraeva la spalla destra. L’impresario faceva penare i membri della compagnia, ma loro non fuggivano. «Scappate», li incoraggiava la gente, ma loro dovevano essersi abituati a lui ed alle sue manie.
Alla fine dell’inverno alcuni uomini assalirono l’impresario e lo picchiarono. Non si arrese facilmente. Pianse e gridò: «I bambini sono miei, solo miei, io li ho cresciuti dalla fine della guerra, sono il loro padre spirituale!», ma le implorazioni non gli servirono. Mentre ancora giaceva a terra, sanguinante, misero i bambini su un furgone e li portarono direttamente alla spiaggia, dove era ancorata una nave.
Durante tutta la traversata, da Napoli a Haifa, il complesso si esibì sul ponte ogni sera, ed alle volte anche di giorno. Shiko non aveva recuperato la memoria, ma recitava con molto sentimento la preghiera El malé rachamim. Il suo volto si era fatto più maturo, dimostrava nove anni. Una donna grossa, proveniente dalla Transilvania, lo avvolse nel suo scialle e non si allontanò da lui per tutto il viaggio.

 

Incontro con Aharon Appelfeld
di Claudia Rosenzweig

Prof.ssa Claudia Rosenzweig, Dipartimento di Letteratura del popolo Ebraico all’Università di Bar-Ilan

Ho incontrato Aharon Appelfeld diverse volte, in occasione dei suoi viaggi in Italia da quando la Casa editrice Giuntina ha cominciato a pubblicare le sue opere, nel 2001, e a Gerusalemme. Nei giorni trascorsi insieme ho avuto modo di intervistarlo ma soprattutto di conoscere uno scrittore che ha combattuto tutta la sua vita per costruire un linguaggio letterario, che gli permettesse di trasformare in letteratura il magma doloroso e ricchissimo rappresentato dal vissuto della sua infanzia. La scrittura letteraria è diventata il mondo che egli ha saputo costruirsi, il suo fattore di equilibrio. Nato a Cernovitz nel 1932, Appelfeld è sopravvissuto alla persecuzione nazista. Vive in Israele dal 1946, da quando vi è arrivato come profugo. Ha studiato all’Università Ebraica di Gerusalemme ed è stato professore di letteratura ebraica all’Università di Beer Sheva.

Per il Festival di Chivasso, Aharon Appelfeld ha gentilmente acconsentito ad una breve video – intervista, nella quale abbiamo tentato di toccare, anche se per necessità in modo rapido, quelli che secondo chi scrive sono i temi che caratterizzano la scrittura di questo autore: il rapporto tra la materia dei ricordi e la scrittura, il percorso da lui compiuto per ricostruirsi un passato culturale che lo riconnettesse alle origini europee del suo ebraismo, e quindi alle fonti ebraiche e alla lingua yiddish, la scrittura come forma di sopravvivenza. Si tratta di temi che vengono affrontati apertamente nella sua autobiografia, ma che compaiono in varei forme anche nella sua opera narrativa. L’intervista è stata realizzata dal regista Ruggero Gabbai, con la collaborazione di Vanina Pezzetti e Dorit Zimbalist nella biblioteca di Casa Ticho, la casa-museo che la pittrice Anna Ticho ha lasciato in eredità al Museo di Israele e che ancora oggi è uno dei posti più incantevoli del centro di Gerusalemme.

Il testo che segue non è una trascrizione della conversazione registrata nel video. Davanti alla telecamera parlano gli sguardi, i gesti, i silenzi. La parola scritta dev’esser più precisa. Ho pertanto creduto utile rielaborare materiale di precedenti interviste, nelle quali i temi accennati vengono sviluppati in modo più approfondito.

R.: La sua autobiografia, Storia di una vita, è un libro molto diverso dai libri di memorie che appaiono così spesso in questa che è stata definita ‘l’era del testimone’. Lei infatti non ama essere inserito nella categoria dei sopravvissuti allo sterminio nazista. Una volta ha detto: «Rifiuto di essere considerato uno scrittore dell’Olocausto, perché non pretendo di poter comprendere tutta la sofferenza della Shoah». Come le piacerebbe fosse presentata Storia di una vita?

A.: Questo libro è un libro di frammenti, ma la mia sensazione è che i frammenti abbiano una unità. È vero, ci sono dei capitoli della mia vita dei quali non posso parlare, perché non riesco ancora a trovare le parole, e tra questi capitoli c’è quello della morte di mia madre, della quale sono stato testimone. In campo di concentramento sono stato separato da mio padre. E mentre accadeva sapevo che quella separazione era per sempre. Anche di questo non riesco a scrivere. E poi sono stato un bambino perseguitato, cacciato e sono stato trattato come un cane pazzo. Un giorno forse scriverò anche di questo, ma ancora non ne sono capace. In questo libro ho raccontato della prostituta che per due mesi mi ha offerto un rifugio: lei è stata la mia scuola e un giorno scriverò su di lei un intero libro. Vorrei avere a disposizione ancora un centinaio d’anni per poterne scrivere. E dopo la prostituta, fu la volta dei criminali, dei ladri di cavalli. Durante la mia infanzia mi sono successe talmente tante cose che potrei scrivere una ventina di libri solo per raccontare tutto questo.

R.: In una delle conferenze da lei tenute ci ha confessato che da bambino pensava che se la perseguitavano era perché era colpevole di qualcosa che non capiva.

A.: Sì, continuavo a chiedermi perché volessero uccidermi. Non riuscivo a capire. Pensavo che il motivo fossero le mie grandi orecchie, o forse emanavo un cattivo odore. Ero convinto che il motivo fosse qualcosa di fisico. Io naturalmente mi sentivo come tutti gli altri bambini, ma al tempo stesso mi rendevo conto che tutti mi davano la caccia, tutti – l’esercito, i contadini – volevano catturarmi. Questo è l’effetto dell’antisemitismo. Dal punto di vista psicologico uno dei delitti dell’antisemitismo è quello di portare l’ebreo a interiorizzare le accuse dei persecutori: se dicono che sono stupido, alla fine comincio a crederci, succede a tutti. Sono convinto che gli ebrei abbiano resistito a questo meccanismo perché la loro fede era molto forte, ma per gli ebrei assimilati era molto più difficile. Anche il sionismo ha interiorizzato ancuni elementi antisemiti, quando sosteneva che l’ebraismo diasporico aveva qualcosa di sbagliato e che gli ebrei dovevano diventare “normali”.

R.: Perché ha deciso di scrivere questo libro?

A.: Questo libro è stato scritto durante quattro o cinque anni, non in un solo giorno. Ogni volta aggiungevo un’immagine. Volevo toccare il ricordo, perché la creazione letteraria lavora con l’immaginazione e anche con l’inconscio, ma quello che cercavo era riuscire ad esaminare cosa restava del ricordo. Ho fatto un viaggio nella memoria. Dicono che io scrivo della Shoà e degli ebrei dell’Europa dell’Est, ma di fatto non ho portato con me molto quel mondo: ero un bambino. E tuttavia è quella piccolissima parte del mio ricordo quello che volevo far vedere in questo libro. Ho attraversato la Shoà senza esserne consapevole e pertanto la mia opera in generale non è basata sul ricordo, bensì sull’invenzione letteraria. Questo libro è l’unica cosa che rimane di quanto ricordo.

R.: Come è stato accolto questo libro in Israele?

A.: Nella letteratura ebraica moderna il posto dedicato alla memoria è decisamente trascurabile. Non c’è spazio per la memoria storica, tutt’al più si tratta di Tel-Aviv e di Gerusalemme. Ciò cui aspiro è essere uno scrittore ebreo, perché gli ebrei dell’Europa dell’Est sono stati sterminati. In Israele sentivo che non c’era chi volesse continuare la tradizione ebraico-orientale. In Israele negli anni ’40 del XX secolo giunsero persone che volevano dimenticare tutto quel dolore, tutto quello che c’era “là” e costruire una nuova vita. Ciò che mi interessa è proprio unire l’Europa dell’Est, la tradizione ebraico-orientale, con quanto esiste oggi. Ho la sensazione di essere solo in questo percorso, perché la maggior parte dei bambini che giunsero insieme a me in Eretz Israel e i loro genitori volevano dimenticare e Israele era ideologicamente pronta a questo, a che dimenticassero e che si dedicassero a costruire una nuova vita, una vita priva di passato. Tutta la vita ebraica dell’Europa Orientale – una vita ricchissima dal punto di vista religioso, culturale, linguistico, è scomparsa, e prima che qualcosa di simile ricompaia nella storia ebraica passerà molto tempo. Oggi ci sono degli israeliani che tornano ad essere ebrei, non solo dal punto di vista religioso, ma anche culturale. Ma si tratta di un cammino ancora lungo, di un percorso lontano dall’essere completato. In Israele ci sono molte condizioni favorevoli allo sviluppo di una nuova vita ebraica: cinque milioni di ebrei in un solo luogo, la lingua ebraica – e per alcuni anche lo yiddish – e un vasto gruppo di ebrei religiosi. Tutti questi elementi potrebbero portare alla formazione di una società ebraica, ma per il momento questa non c ‘è ancora. Per tornare alla sua domanda, in generale la mia opera non è stata accolta molto bene in Israele. È chiaro infatti che parlo in nome della cultura ebraica e in Israele c’era una forte opposizione a questa. Adesso la situazione è migliorata. Ho un pubblico di lettori relativamente grande. Ma all’inizio si diceva: Appelfeld ci riporta alla Diaspora, ci riporta alla Shoà, e altre critiche simili.

R.: E all’estero?

A.: Negli Stati Uniti la mia opera è molto diffusa, e anche in Germania e in Francia. In particolare gli ebrei degli Stati Uniti sono alla ricerca della loro identità e credo che per questo sia uno dei motivi per i quali io sia uno di quegli scrittori che leggono con interesse.

R.: In Storia di una vita lei racconta anche del suo incontro con Sha”y Agnon, lo scrittore israeliano che ha preso il Premio Nobel nel 1967. Qual’è stata l’influenza di questo incontro sulla sua opera?

A.: Non scrivo come Agnon e non ho imparato direttamente da lui, ma è stato una figura importante per me. Quando sono arrivato in Israele nel 1946, questo era un paese eroico, rivoluzionario, e la rivoluzione sionista, come ogni rivoluzione, aveva qualcosa di duro e di difficile. Negli anni ’40 e ’50 c’era la tendenza a creare un nuovo ebreo, biondo, con gli occhi azzurri, forte, combattivo, un nuovo ebreo. Agnon mi ha dato la legittimazione a scrivere della mia vita come ebreo, come un ebreo cacciato, legato alla propria famiglia, e a delle fonti ebraiche.

R.: Lei crede quindi che uno scrittore ebreo per essere tale debba essere in contatto con la lingua e le fonti ebraiche.

A.: Le faccio un esempio. Primo Levi. Non è certo possibile dire che non sia uno scrittore ebreo, ma per spiegare la tragedia, non si rifa a Giobbe, bensì a Dante, alla mitologia cristiana. È Auschwitz che lo ha reso ebreo, ed è questa esperienza ebraica che lo costringe a riflettere sul suo ebraismo. Secondo me è molto difficile parlare della profondità ebraica senza conoscere le fonti e la lingua ebraiche. Anche Kafka ci ha lasciato molto sulla sua sete di ebraismo, specialmente nei suoi diari, e Proust è pieno di curiosità verso l’ebraismo, e lo stesso vale per Isaac Babel, e Saul Bellow. Ma per me è chiaro che quando un uomo parla o scrive nella sua lingua da dentro una tradizione ha un potenziale enorme.

R.: Per lei si è trattato di un lungo percorso.

A.: È vero. La mia prima lingua è stata il tedesco, la seconda l’ucraino, con i nonni parlavo in yiddish, nei dintorni si parlava rumeno, i vicini di casa erano polacchi e pertanto con loro si parlava in polacco, e gli intellettuali parlavano francese. Ma in Europa ho frequentato solo la prima elementare. Poi è arrivata la guerra, e con essa il ghetto, i campi di concentramento, la foresta. Quando sono arrivato in Eretz Israel avevo quattordici anni e non avevo una lingua. Ora sono molto felice che sia l’ebraico la mia lingua. Sono felice di essere legato alla lingua ebraica, perché essa mi riporta non solo alla Bibbia, ma anche a tutte le opere che attraverso i secoli sono state composte in lingua ebraica in Spagna, in Italia, in Germania. Attraverso l’ebraico e grazie all’ebraico, posso essere uno scrittore universale.

R.: Mi viene in mente una frase di Cocteau citata da Jodorowsky in Quando Teresa si arrabbiò con Dio: un uccello canta meglio sul proprio albero genealogico.

A.: Sì, è vero, ma è vero anche che a volte è proprio l’esilio che fa sì che il canto esca più limpido. A volte proprio scrivendo in un’altra lingua esce qualcosa di ebraico. Non sono un fanatico della lingua, ma delle fonti. In questi tempi non c’è un solo modello di ebreo, ce ne sono tanti ed è importante metterli insieme e dare loro espressione. In Italia ad esempio dal periodo tra le due guerre fino agli anni ’60 c’erano molti scrittori ebrei. C’è un ebraismo che nasce da un’esperienza ebraica. Negli ultimi cento anni ci sono l’ortodossia ebraica, il comunismo ebraico, il bundismo ebraico, il sionismo ebraico, il movimento yiddishista ebraico: tutto questo è ebraico. Inoltre l’ebreo è stato in diversi territori geografici. Più si ha di tutti questi elementi, di tutti questi territori, è più si è ebrei. O almeno così è per me. Il mio ebraismo ha tanti rami diversi, a volte in contraddizione; e più ci sono diversità e sfumature e più è interessante. Anche dal punto di vista artistico chi attraversa tutto questo è come se si nutrisse a varie fonti. Un buon esempio è lo yiddish, una lingua che contribuisce molto a fare di qualcuno uno scrittore ebreo. In parte per quersti motivi nella mia letteratura racconto dell’ebreo assimilato, un tipo particolare di ebreo moderno. Si tratta di una situazione psicologica ebraica molto particolare, che è difficile che gli israeliani capiscano. Questo è il modo in cui mi situo in questo quadro, su questa carta geografica che le ho delineato.

R.: Per tornare agli anni in Israele, come sono stati i suoi anni di insegnamento all’Univesità di Beer-Sheva?

A.: La mia vita è la scrittura. La scrittura è mattino, mezzogiorno e sera. Al tempo stesso è una continua osservazione. La letteratura, al contrario ad esempio della storia, non si occupa del passato, neppure quando è del passato che parla. La scrittura è sempre un presente bruciante. Tutti i lavori che ho fatto non hanno disturbato la mia scrittura. La scrittura richiede tutto te stesso. Sono come arruolato nella scrittura. Se mentre cammino sento una certa parola, mi dico: ecco, è di questa parola che ho bisogno, e così con le frasi, e le immagini.

R.: Quand’è che sente che un libro è finito?

A.: Un libro non è mai finito. Arrivo a un punto in cui sento che non posso più andare avanti, anche se ci sarebbe ancora molto da fare. Dopo che ho terminato un libro, lo lascio da parte per alcuni anni, e poi vi ritorno. Sento allora che è tutto più facile, perché dal punto di vista emotivo non c’è più un legame. In questa fase, posso cancellare senza problemi.

R.: Ci vuole raccontare qualcosa di Tutto ciò che ho amato?

A.: Si tratta di un libro su una famiglia ebraica assimilata che si sta frantumando. Il padre è un pittore, la madre è una insegnate, e il figlio ha nove anni. I genitori si separano. Il bambino all’inizio resta con la madre, ma poi vive col padre. Questi è un anarchico bohémien, che non crede nell’educazione scolastica e decide che il figlio deve lasciare la scuola. Così il bambino non va a scuola, ma osserva e impara molto. Tutta la vicenda è raccontata dal punto di vista del bambino. Questo libro è stato pubblicato nel 1999 ed è uscito contemporaneamente a Storia di una vita. Entrambi i libri hanno qualcosa in comune, presentano degli elementi autobiografici.

R.: Le è stato chiesto se si scrive per se stessi o per gli altri, e lei ha risposto che la scrittura è una lunga lettera d’amore. Vorrebbe spiegare meglio questa affermazione?

A.: Dietro alla scrittura ci sono moltissime motivazioni: l’odio, la rabbia, i complessi, l’ideologia, la necessità di liberarsi di qualcosa di traumatico e anche quella di dare quanto di meglio c’è in noi. È questo quello che intendo quando parlo di una lunga lettera d’amore. E quando parlo di quanto di meglio c’è in noi, non mi riferisco a qualcosa di sentimentale, e neppure al desiderio di abbellire se stessi, bensì ai momenti nei quali si raggiunge il massimo dell’umano che c’è in noi.

R.: Lei crede nella scrittura.

A.: Non è solo questo. È la scrittura che mi ha reso ebreo. È la scrittura che mi ha restituito i genitori, i nonni, tutte le cose buone che lo sterminio mi ha sottratto. La scrittura letteraria è qualcosa di intimo, quasi un sostituto del sentimento religioso.

R.: Come per Kafka, il quale affermava che scrivere è un tipo di preghiera.

A.: Sì. In altre parole: abbiamo dimenticato come pregare, e allora scriviamo.