Votare in Israele: un compito molto semplice, ma anche estremamente complicato

Molti elettori votano per sostenere un blocco più che un partito, giacché sanno che la vera vittoria non si ottiene alle urne, ma nelle trattative per la coalizione di governo

Di Haviv Rettig Gur

Haviv Rettig Gur, autore di questo articolo

A prima vista, il sistema elettorale israeliano è uno dei più semplici al mondo. Nella cabina elettorale l’elettore ha solo una cosa da fare: scegliere la lista che preferisce, prendere il foglietto relativo, infilarlo in una busta, chiuderla e imbucarla nella tradizionale urna blu. Tutto qui. Le liste che ottengono più del 3,25% del totale dei voti validi entrano nella Knesset con un numero di parlamentari proporzionale al numero di voti ottenuti. Non esiste una seconda Camera del parlamento, non esistono preferenze (le liste sono bloccate), non esiste elezione diretta del ramo esecutivo. E solo un numero molto limitato di israeliani ha la possibilità, in quanto iscritto ad alcuni partiti, di influire sulla composizione delle liste del proprio partito votando alle primarie, prima delle elezioni nazionali. In realtà, la maggior parte dei partiti israeliani non compone le liste attraverso il sistema delle primarie. Per la maggior parte, i parlamentari eletti sono stati collocati nella parte alta della rispettiva lista su decisione dal leader del partito (come avviene in Yesh Atid, Yisrael Beytenu e Yamina) o di un consiglio rabbinico che a sua volta risponde al leader del partito (come nello Shas) o sulla base di complicate intese raggiunte tra sotto-fazioni che compongono la lista (come nella Lista araba Congiunta o in Ebraismo Unito della Torà).

Questo scollegamento tra elettore e parlamentare eletto conta parecchio: di fatto rende le elezioni israeliane non tanto l’espressione di un contratto sociale tra governanti e governati, quanto una sorta di mega-sondaggio identitario. Ciascun partito tende a identificarsi o a trarre forza da un particolare sotto-gruppo etnico o religioso della popolazione israeliana: Shas con gli ultra-ortodossi sefarditi, Ebraismo Unito della Torà con gli ultra-ortodossi askenaziti, Yesh Atid con gli elettori laici della classe media, Ra’am con i beduini e altri gruppi musulmani conservatori, Yisrael Beytenu con gli elettori originari dell’ex-Unione Sovietica, Yamina con gli israeliani che vivono in Cisgiordania e così via. Il risultato delle urne funziona come una sorta di fotografia culturale e demografica della popolazione israeliana.

Le schede elettorali in un seggio di Gerusalemme

Dunque, un voto relativamente semplice, abbastanza identitario e piuttosto prevedibile. Poi, all’improvviso, tutto si complica. La società israeliana non è composta da una sola comunità omogenea, ma da almeno una dozzina di “tribù”. Pertanto la Knesset, eletta con sistema proporzionale, ospita sempre non un paio di partiti, ma almeno otto o dodici formazioni, ciascuna con diverse lealtà e programmi in concorrenza fra loro. Eleggere la Knesset è semplice, ma può diventare arduo e tormentoso il processo per cercare di ricavarne, poi, una coalizione di maggioranza. Quando gli israeliani si recano al seggio elettorale, quello che hanno in mente non è la giornata elettorale: hanno in mente i negoziati e le trattative che verranno dopo, per formare una coalizione di almeno 61 seggi (su 120). Per come funziona il sistema israeliano, è nelle trattative per la coalizione di governo che si misura l’effettivo successo elettorale.

Ed è qui che la scelta dell’elettore diventa realmente complicata, perché deve tenere conto delle tante dichiarazioni pubbliche di lealtà, così come dei veti e degli ostruzionismi annunciati da ogni formazione durante la campagna elettorale. Benjamin Netanyahu (Likud) dice che non entrerà mai in una coalizione con Yesh Atid, Laburisti, Meretz, Lista araba Congiunta o Ra’am. Dal canto loro Gideon Sa’ar (Nuova Speranza), Avigdor Lieberman (Israel Beytenu), Benny Gantz (Blu-Bianco), Merav Michaeli (Laburisti), il Meretz e Yair Lapid (Yesh Atid) dicono che non entreranno mai in un governo con Netanyahu. Lieberman dice che non parteciperà a una coalizione con gli ultra-ortodossi. Bennett dice che non entrerà in un governo sotto Lapid, ma non esclude di entrare in un governo con Lapid. Shas afferma che non abbandonerà Netanyahu. Lo affermava anche Ebraismo Unito della Torà, che tuttavia negli ultimi giorni ha corretto il tiro dicendo che nessuno può dare per scontato il suo sostegno. E così via.

Tutti questi proclami e ammonimenti hanno lo scopo di indurre l’elettore israeliano a valutare il proprio voto anche o soprattutto sul piano tattico, tenendo d’occhio non tanto i parlamentari che desidera mandare alla Knesset quanto la coalizione di governo che vorrebbe veder prevalere e i rapporti di forza fra i partiti che possono più o meno favorirla. Così, ad esempio, un elettore pro-Netanyahu potrebbe decidere, benché laico e non estremista, di votare Sionismo Religioso per assicurarsi che i voti di questa formazione minore di estrema destra non vadano dispersi e contribuiscano a dare a Netanyahu la maggioranza alla Knesset. Analogamente, un elettore che desidera un governo guidato da Lapid potrebbe votare per il Meretz non perché sia il suo partito preferito, ma per aiutarlo a superare il quorum e sostenere una coalizione di centro-sinistra. Un altro elettore di centro-sinistra che ritenesse prioritario porre fine alla lunga leadership di Netanyahu potrebbe persino votare una lista di destra come Nuova Speranza di Sa’ar per dare forza al blocco anti-Bibi. Tutto questo fa dell’elettore israeliano una creatura altamente tattica. Insieme alle passioni ideologiche e identitarie, molti elettori (quanti?) tengono d’occhio la coalizione di governo finale più che il partito di loro gradimento: votano per sostenere un blocco più che un partito, giacché sanno che la vittoria non si ottiene alle urne, ma al tavolo delle trattative per la coalizione.

Martedì gli elettori israeliani sono chiamati a compiere un gesto che sembra semplice: scegliere una lista e votarla. Ma nel momento in cui si pongono il problema di sbloccare la situazione di stallo su cui è incagliata la politica del paese da due anni, e tengono a mente il processo di formazione del governo che dovrà seguire, quel semplice gesto può diventare davvero molto molto complicato.

(Da: Times of Israel, israele.net, 23.3.21)

Per scorrere la galleria d’immagini, cliccare sulla prima e proseguire cliccando sul tasto “freccia a destra”: