Yaakov Amidror: “In vent’anni di negoziati i palestinesi non si sono spostati di un centimetro”

L’ex consigliere alla sicurezza nazionale: “Più parlo con i palestinesi più mi rendo conto che il vero problema per loro è il '48, non il '67”

Yaakov Amidror

Yaakov Amidror

Dal 1994 i palestinesi “non si sono spostati di un centimetro” dalle loro posizioni negoziali mentre i governi israeliani, compreso quello di Netanyahu, hanno fatto concessioni straordinarie quasi del tutto disconosciute dall’opinione pubblica mondiale. Lo afferma Yaakov Amidror, fino a poco tempo fa consigliere per la sicurezza nazionale d’Israele.

Intervenendo settimana scorsa in un dibattito intitolato “Dove vanno i negoziati israelo-palestinesi?” organizzato dal Centro di Studi Strategici Begin-Sadat dell’Università Bar-Ilan, Amidror ha messo a confronto le proposte di compromesso che Israele offre oggi ai palestinesi con quelle illustrate alla Knesset nell’ottobre 1995 dall’allora primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, un mese prima d’essere assassinato. “Israele ha fatto enormi passi verso i palestinesi – ha detto Amidror – mentre i palestinesi non si sono mossi di un centimetro. Su alcuni argomenti, hanno persino fatto passi indietro”.

Amidror è stato consigliere per la sicurezza nazionale sotto Netanyahu dal marzo 2011 fino al novembre 2013 e in questa veste è stato impegnato in prima persona nell’attuale round di negoziati con i palestinesi . In quanto alto ufficiale, è stato anche a capo del dipartimento di ricerca dell’intelligence militare e segretario del ministro della difesa.

Innanzitutto, sottolinea Amidror, Israele ha pienamente ed esplicitamente accettato la prospettiva di uno stato palestinese sovrano accanto a Israele, cosa che Rabin non aveva fatto né quando firmò gli Accordi di Oslo né quando presentò quegli accordi perché fossero approvato dalla Knesset. Vi sono poi particolari di grande importanza che sfuggono completamente all’attenzione non solo del grande pubblico e degli osservatori, ma persino dei funzionari americani che seguono da vicino il processo negoziale. Ad esempio, ricorda Amidror, circa la Valle del Giordano (il “confine di sicurezza” d’Israele verso est), i governi Olmert e Netanyahu si sono limitati a chiedere una qualche “presenza militare” d’Israele laddove Rabin immaginava che tutta la valle restasse sotto pieno controllo israeliano. Su quest’ultimo tema, ha detto Amidror, “gli americani non si erano nemmeno accorti della differenza finché non gliel’abbiamo fatta notare”. E ha aggiunto: “Il mondo non riconosce gli enormi passi fatti da Gerusalemme, e persino in Israele c’è scarsa sensibilità su questi temi”.

Il Cairo, 1995. Da sinistra: re Hussein di Giordania, il capo dell’Olp Yasser Arafat, il presidente egiziano Hosni Mubarak, il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, il ministro degli esteri israeliano Shimon Peres

Anche il principio, accettato da Israele, di scambiare in un rapporto di 1:1 dei territori di Cisgiordania abitati da israeliani (blocchi di insediamenti) con territori d’Israele al di qua della ex-linea armistiziale pre-’67  non era stato nemmeno immaginato da Rabin.

Non basta. Nel corso del processo di pace, per tenere in vita i negoziati Israele ha accettato negli anni scorsi una serie di misure e di gesti di buona volontà che non erano previsti nello schema avviato da Rabin vent’anni fa, come ad esempio il congelamento per dieci mesi nel 2010 di tutte le attività edilizie ebraiche in Cisgiordania, o la scarcerazione di detenuti palestinesi personalmente colpevoli di sanguinosi reati di terrorismo contro civili innocenti.

“Da un punto di vista diplomatico, non mi risulta nessuna concessione palestinese dall’inizio dei negoziati fino ad oggi” ha spiegato Amidror, giacché i palestinesi considerano come loro massima concessione il fatto stesso d’aver accettato vent’anni fa di trattare con una “realtà di fatto” chiamata Israele. E da allora continuano a “vendere” questa “concessione” in cambio di nuove pretese, come avviene anche in questi giorni per la prosecuzione dei negoziati dopo la scadenza del 29 aprile.

In questo contesto Amidror sottolinea l’importanza del riconoscimento palestinese di Israele come stato ebraico. Tale riconoscimento, dice, non è importante per Israele – che continuerà a definirsi come vuole – ma per la società palestinese: “per chiudere definitivamente la questione del 1948”, cioè dell’esistenza stessa di Israele. “Più parlo con i palestinesi – conclude Amidror – più mi rendo conto che il vero problema per loro è il 1948, non il 1967. In questo senso è chiaro che un accordo con i palestinesi che non includesse il chiaro riconoscimento di Israele come stato nazionale del popolo ebraico non varrebbe la carta su cui è scritto”.

(Da: Times of Israel, 28.3.14)