Yigal Amir uccise Rabin, non la pace

Il processo di Oslo non è fallito perché Rabin fu ucciso, ma perché fondato su falsi presupposti circa i palestinesi e la natura del loro conflitto con Israele

Di Caroline B. Glick

Caroline B. Glick, autrice di questo articolo

Caroline B. Glick, autrice di questo articolo

È degno di nota il fatto che, nella stessa settimana in cui Israele commemorava il 20esimo anniversario dell’assassinio del primo ministro e ministro della difesa Yitzhak Rabin (4 novembre 1995), il presidente dell’Autorità Palestinese e capo dell’Olp Mahmoud Abbas (Abu Mazen) parlando di fronte alla Commissione Onu dei Diritti Umani a Ginevra esortava le Nazioni Unite a istituire contro Israele “un regime speciale di protezione internazionale” per i palestinesi. “Non serve perdere tempo con negoziati fini a se stessi, quello che occorre è la fine dell’occupazione in conformità alla legittimità internazionale”, ha affermato l’uomo che in tutta la sua vita non ha mai condotto negoziati in buona fede con Israele, e che negli ultimi sette anni si è rifiutato anche solo di far finta di negoziare.

E’ paradossale che Abu Mazen abbia sparato quest’ultima salva della sua guerra diplomatica contro Israele proprio nella settimana in cui Israele ricorda l’assassinio di Rabin. Mentre il nostro supposto interlocutore di pace ci calunniava dall’ennesimo palcoscenico internazionale (affermano en passant che lo stato di Israele costituisce in quanto tale una “occupazione” da eliminare), ancora una volta il nostro doloroso processo di introspezione nell’anniversario dell’omicidio di Rabin dimostrava che abbiamo imparato ben poco nel corso degli ultimi vent’anni. L’annuale auto-flagellazione nazionale che va in scena in Israele in occasione dell’anniversario dell’assassinio di Rabin è un duplice trabocchetto: innanzitutto perché ci impedisce di venire a patti con la vera ragione per cui il processo di pace di Oslo è fallito, e poi perché distorce completamente la testimonianza di Rabin in quanto leader che ha dedicato tutta la sua vita alla sicurezza nazionale di Israele.

La vulgata secondo cui Yigal Amir ha ucciso non solo Rabin ma anche la possibilità di arrivare alla pace si basa sul presupposto che Rabin, a differenza dei cinque primi ministri che hanno guidato Israele dopo la sua uccisione (Shimon Peres, Ehud Barak, Ariel Sharon, Ehud Olmert e Benjamin Netanyahu), sarebbe arrivato ad un accordo di pace finale con Yasser Arafat se solo fosse vissuto abbastanza da portare a termine il suo mandato. Questa affermazione ignora la natura del processo di Oslo e distorce la posizione di Rabin su di esso.

Contrariamente a ciò che sostengono i suoi ideatori e sostenitori, il processo di Oslo non avrebbe mai potuto portare la pace tra Israele e i palestinesi. Non avrebbe potuto portare la pace, perché l’Olp ha mai voluto la pace. Subito dopo aver firmato con Israele il documento iniziale, il 13 settembre 1993, Yasser Arafat volò da Washington in Sud Africa dove spiegò a un folto uditorio di musulmani che il processo di pace era una frode. Spiegò che il processo di Oslo avrebbe indebolito Israele rafforzando i palestinesi, e che i palestinesi avrebbero utilizzato questa posizione migliore per raggiungere il loro vero obiettivo: l’eliminazione di Israele attraverso la jihad. Non si trattò di uno scivolone momentaneo da parte di Arafat. Era piuttosto il suo coerente messaggio, sia al mondo musulmano in generale che a quello dei palestinesi in particolare.

In Israele, dopo aver intrapreso quello che veniva visto come il processo di pace con l’Olp, il Ministero dell’istruzione iniziò a modificare i programmi scolastici. A partire dal 1994, agli alunni israeliani venne insegnato che l’Olp era una forza moderata e un interlocutore di pace. Dall’altra parte, dopo l’istituzione nel 1994 dell’Autorità Palestinese, i palestinesi vararono i loro programmi scolastici ed educativi tesi a indottrinare i loro figli perché vedessero gli israeliani come esseri subumani e l’assassinio di israeliani come la più alta vocazione morale. Gli attentatori suicidi che hanno imperversato in Israele negli anni 2000-2005 furono il prodotto di quell’indottrinamento.

Allo stesso modo, mentre il governo Rabin abbracciava il movimento pacifista israeliano, l’Olp braccava e uccideva i palestinesi che cercavano una convivenza pacifica con Israele, compresi quelli che aiutavano Israele a catturare i terroristi e a prevenire gli attentati terroristici contro gli israeliani (regolarmente definiti dalla retorica ufficiale “attentati contro la pace”). Intanto l’Autorità Palestinese glorificava gli assassini in ogni modo possibile, fino al punto di stampare raccolte di figurine con i volti dei terroristi proposti come eroi nazionali al posto delle star dello sport. La situazione non è migliorata con il successore di Arafat, Abu Mazen, sotto il quale vengono spesso ostracizzati e persino arrestati i palestinesi che fanno affari con gli israeliani o acquistano prodotti israeliani.

Yitzchak Rabin, capo di stato maggiore delle forze israeliane, a Gerusalemme nel giugno 1967

Yitzchak Rabin, capo di stato maggiore delle forze israeliane, a Gerusalemme nel giugno 1967

In altre parole, Oslo non è fallito perché Rabin fu ucciso. Oslo è fallito, e continua a fallire, perché fondato su falsi presupposti circa i palestinesi e la natura del loro conflitto con Israele. A parte la fiducia mal riposta in Arafat come “uomo di pace”, il processo di Oslo ipotizzava che la mancanza di pace fosse dovuta alla mancanza di uno stato palestinese, e che quindi dipendesse da Israele sia sul piano politico che morale: se solo Israele avesse dato all’Olp terre sufficienti da appagarla, ecco che ci sarebbe stata la pace. Tuttavia – come ha detto Shlomo Ben-Ami, il laburista che è stato ministro degli esteri negli in cui il processo di Oslo naufragava nella guerra terroristica palestinese subito dopo il summit di Camp David del luglio 2000 – quel presupposto era semplicemente sbagliato. I palestinesi non sono mai stati veramente interessati a risolvere in qualche modo il loro contenzioso con Israele. Come spiegò Ben-Ami ad Ha’aretz nel settembre 2000, “la concessione di Arafat nei confronti di Israele [a Oslo] era una concessione formale: moralmente e concettualmente, non ha mai riconosciuto il diritto di Israele ad esistere. Egli non accetta l’idea di due stati per due popoli. Né lui né il movimento nazionale palestinese ci accettano. Più che volere uno stato per loro, vogliono spazzare via il nostro stato”. In altri termini, Oslo non è mai stato un processo di pace perché i palestinesi non lo vedevano come uno strumento per costruire la loro sede nazionale, ma come un mezzo per arrivare alla distruzione di Israele. L’idea che il processo di pace si morto con Rabin è assurda, perché il processo di pace non è mai esistito al di fuori della fantasia dei suoi architetti e sostenitori.

Il che ci porta al secondo trabocchetto che caratterizza l’annuale sagra israeliana dell’auto-denigrazione. Essa non solo distorce la natura del processo di Oslo, ma distorce la vita e il retaggio di Rabin.

Rabin non era un pacifista. Non era un brillante ideologo. Rabin era un falco che dedicò tutta la sua vita alla difesa e alla sicurezza di Israele. È vero, Rabin riteneva che l’assenza di pace con i palestinesi fosse la radice del più ampio rifiuto di Israele da parte del mondo arabo. Ma riteneva anche che vi fossero dei limiti a ciò che Israele poteva offrire ai palestinesi senza mettere a repentaglio la propria sicurezza. Nell’idea di Rabin, i contorni di un accordo finale con i palestinesi dovevano coincidere più o meno con le linee del piano di pace [con la Giordania] ipotizzato da Yigal Allon nel 1967. Rabin riteneva che l’assetto risolutivo del processo di pace dovesse comportare un ente governativo autonomo palestinese più che uno stato vero e proprio, che presiedesse su circa la metà della Giudea e della Samaria (Cisgiordania) e gran parte di Gaza. Gerusalemme, a suo avviso, sarebbe rimasta unita sotto sovranità israeliana. Le comunità israeliane in Giudea, Samaria e Gaza sarebbero rimaste al loro posto e Israele avrebbe mantenuto il controllo sulle aree non cedute ai palestinesi, comprese le frontiere internazionali con Egitto e Giordania. (Tutti gli accodi coi palestinesi firmati da Rabin fra il 1993 e il 1995 non parlano di “stato palestinese” e non entrano nel merito dei confini definitivi.)

“Oslo non è mai stato un processo di pace perché i palestinesi non lo vedevano come uno strumento per costruire il loro stato, ma come un mezzo per arrivare alla distruzione di Israele”.

Rabin non si era invaghito di Arafat e dell’Olp. Rabin non è stato l’architetto del processo di Oslo. Shimon Peres e i suoi collaboratori negoziarono l’accordo iniziale, a Oslo appunto, alle spalle di Rabin. Rabin si sentì in dovere di adottare il loro accordo a cose fatte, perché nella campagna elettorale 1992 aveva promesso agli elettori che avrebbe perseguito la pace con i palestinesi. Avrebbe rotto il rapporto di fiducia con i suoi elettori se avesse rifiutato l’intesa fatta passare a Oslo da Peres e soci. Ma pur adottandolo, mantenne un sano scetticismo sulle sue possibilità di successo. E quando gli attacchi terroristici iniziarono ad aumentare nei mesi che seguirono alla cerimonia della firma del ’93 sul prato della Casa Bianca, Rabin iniziò a considerare la possibilità di annullare il processo. Come spiegò il commentatore di sinistra Amnon Abramovich in un’intervista poco dopo l’assassinio, a Rabin “andava bene il fatto che l’accordo di Oslo non fosse un affare chiuso, a differenza di un accordo con la Siria che sarebbe stato irreversibile. Rabin sottolineava che Oslo era un processo che si sarebbe potuto sospendere in ogni momento, se necessario”. Alla vigilia del suo assassinio, a causa del crescente terrorismo palestinese Rabin stava seriamente considerando di abrogare tutto il processo di Oslo. In un’intervista nel 15esimo anniversario dell’omicidio di suo padre, Dalia Rabin ha spiegato che Rabin era sul punto di cancellare l’accordo e tornare al punto di partenza. “Le persone che erano vicino a mio padre – ricordava Dalia Rabin – mi hanno detto che, alla vigilia del suo assassinio, stava considerando di porre fine al processo di Oslo. Non era tipo da andare avanti alla cieca”.

Il comportamento di Abu Mazen la scorsa settimana alle Nazioni Unite, dove ha esortato il mondo a proteggere i palestinesi da Israele mentre a casa sua continuava a esortare i palestinesi ad attaccare gli israeliani coi coltelli e le auto, non deve stupire. E’ perfettamente coerente con le precedenti macchinazioni diplomatiche dell’Olp negli anni 2000-2003 sull’onda della guerra terroristica contro Israele. Anche oggi Abu Mazen sfrutta le violenze sul terreno per convincere l’Onu a dettare i termini della resa israeliana all’Olp in Giudea, Samaria e a Gerusalemme. La strategia può riuscire per una serie di motivi che sono al di fuori del controllo di Israele, ma anche per una ragione che invece dipende da Israele. Se Abu Mazen può avere successo alle Nazioni Unite in parte è perché Israele si rifiuta di riconoscere che non c’è mai stato un processo di pace.

Arafat mentì, a noi e al mondo, circa le sue intenzioni, e noi abbiamo mentito a noi stessi circa la natura della guerra palestinese contro Israele. Finché continuiamo ad assecondare questa farsa stantia, non saremo in grado di concepire e attuare una strategia diplomatica che sia coerente ed efficace contro le montagne di menzogne e di omicidi su cui l’Olp e Fatah hanno basato la guerra contro Israele nei 56 anni da quando sono state fondate.

(Da: Jerusalem Post, 29.10.15)

Si veda anche:

Su Ha’aretz, Rabin, una vita attraverso le immagini

Su Storia in Network: “Rabin, una vita in guerra per conquistare la pace”, Parte Uno e Parte Due