Sharm 2005

Cosa ha reso possibile il summit Sharon-Abu Mazen dell’8 febbraio? E cosa lo rende diverso dagli altri summit che l'hanno preceduto?

M. Paganoni per Nes n. 2, anno 17 - febbraio 2005

image_578Cosa ha reso possibile il summit Sharon-Abu Mazen-Mubarak-re Abdullah l’8 febbraio a Sharm el-Sheikh? E cosa lo rende diverso dai tanti altri che l’hanno preceduto, compreso quello ad Aqaba del giugno 2003 fra gli stessi due protagonisti, il primo ministro israeliano Ariel Sharon e l’allora primo ministro palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen)?
Gli osservatori israeliani rispondono con crudo realismo. “Se Israele non avesse sostanzialmente vinto la guerra al terrorismo – scrive Yediot Aharonot (9.02) – nessun leader arabo si sarebbe preso la briga di organizzare un vertice, accogliendo Sharon nel proprio paese. Solo quando hanno capito che Israele aveva messo in campo una schiacciante risposta militare al terrorismo islamico, gli arabi attorno a noi hanno trovato la volontà di tornare a sedere al tavolo negoziale. Il processo diplomatico è ripartito quando Israele è tornato a parlare da una posizione di forza”. Ovvio corollario: “Ora israeliani e palestinesi devono fare di tutto per impedire che i gruppi terroristici, significativamente indeboliti, riacquistino la forza di un tempo”.
Il secondo elemento che, con tutta evidenza, ha riaperto la strada al negoziato è stata la scomparsa di Yasser Arafat, al punto che molti in Israele parlano oggi di “intifada di Arafat” (alcuni lettori del Jerusalem Post suggeriscono addirittura “Arafada”). “Mai decesso di uomo ha dato vita a tante speranze”, ha commentato Piero Ostellino introducendo un dibattito dell’Associazione Italia-Israele di Milano la stessa sera del summit. E dunque l’assenza di Arafat rappresenta al contempo uno dei fattori che hanno reso possibile il vertice di Sharm e uno dei fattori che potrebbero fare di questo vertice qualcosa di realmente diverso.
“Sharm 2005 non è Aqaba 2003” ha sintetizzato Herb Keinon sul Jerusalem Post (9.02), facendo notare come in questa occasione i discorsi ufficiali di Sharon e Abu Mazen siano stati piuttosto secchi e asciutti, improntati al pragmatismo più che agli svolazzi retorici. “Discorsi pratici, non poetici” con i quali i due leader hanno proclamato la volontà di cessare ogni violenza reciproca e si sono impegnati ad adottare misure concrete per promuovere la ripresa del processo diplomatico e la cooperazione. Non spirava il vento dei grandi momenti storici. Certo, dopo tanti summit memorabili seguiti da cocenti delusioni, abbandonarsi all’afflato delle grandi svolte poteva gettare persino un’ombra di ridicolo sui convenuti a Sharm: il pubblico (israeliano, palestinese e generale) che li guardava stringersi la mano in televisione è molto più disincantato e amareggiato di quello che assisteva ai grandi vertici degli anni Novanta. Ma c’era un altro elemento che suggeriva toni più pragmatici, aggiunge Herb Keinon: “Un anno e mezzo fa Abu Mazen poté dare sfogo alla sua vena poetica, riconoscendo le secolari sofferenze degli ebrei, perché sapeva – come sapeva tutto il mondo – che ciò che contava davvero non era quello che lui diceva, ma quello che Arafat faceva. E Arafat non aveva alcuna intenzione di fare nulla. Questa volta Abu Mazen è il leader sovrano, questa volta non c’è nessuno sopra di lui pronto a ribaltare le sue parole e i suoi progetti. Questa è la vera differenza: motivo di speranza, certo, ma non di grande entusiasmo. Gli ostacoli che si parano sulla strada di Abu Mazen sono ancora alti. Anche dopo Sharm el-Sheikh”.
Israele, dal canto suo, è arrivato a Sharm con un governo completamente rinnovato. L’uscita dello Shinui, l’entrata dei laburisti, la frattura interna del Likud hanno portato al summit una sorta di Sharon Due sul piano istituzionale e sul piano politico. Oggi il paese è governato da una coalizione di unità nazionale che, sui temi cruciali del processo diplomatico, raccoglie consensi anche oltre il perimetro della maggioranza e che riflette un’ampia convergenza presente nell’opinione pubblica su quegli stessi temi: secondo un sondaggio Ma’agar Mokhot condotto subito dopo Sharm, il 65% degli israeliani è favorevole al piano di disimpegno, benché siano altrettanti quelli che non credono che l’intifada sia davvero finita.
Ma tutto questo, come ha notato Ari Shavit (Ha’aretz, 10.02), non può nascondere il travaglio interno della politica israeliana. Non tanto per la caparbia opposizione di gruppi di coloni, che sono e restano una minoranza, quanto piuttosto per le profonde differenze che comunque sussistono fra due ispirazioni e approcci che potremmo chiamare Sharon Uno e Sharon Due: il primo non si fida in generale della volontà di riconciliazione degli arabi, il secondo è disposto a rischiare dando loro fiducia; il primo non crede veramente possibile un accordo finale, il secondo ci crede; il primo teme che uno stato di Israele confinato grossomodo entro i confini pre-67 sarebbe in serio pericolo, il secondo ritiene che il vero pericolo nasca proprio dal mantenere confini molto al di là di quelli del ‘67. Avendo concezioni di fondo quasi opposte, i due Sharon hanno anche approcci diversi sul piano strategico. Il primo pensa che si potrà arrivare alla pace con i vicini solo nell’arco di alcune generazioni e si attrezza psicologicamente e militarmente per il lungo conflitto, il secondo crede nella pace adesso, al più presto possibile, entro un anno. Il primo vede il disimpegno dalla striscia di Gaza come una misura per asserragliarsi su posizioni meglio difendibili, lo sgombero di una ventina di insediamenti come mezzo per preservarne altri. Il secondo è convinto che lo sgombero da Gaza e da quegli insediamenti preluda a un disimpegno ben più ampio e consistente. L’uno si augura che il ritiro metta il processo in formalina, l’altro che gli dia un’iniezione di adrenalina.
I due approcci sostanzialmente coesistono nella politica e soprattutto nell’opinione pubblica israeliana. Il prevalere della fiducia o del pessimismo dipende in grande misura dagli atteggiamenti della controparte e da quanto accade tutt’attorno. La caduta di Saddam, la conferma di Bush, la morte di Arafat, l’elezione di Abu Mazen e il suo impegno a fermare le violenze rafforzano la speranza. “Ma la lotta non è finita – avverte Ari Shavit – Non bisogna mai sottovalutare la capacità dei palestinesi di tirarsi la zappa sui piedi. Se Hamas rialzerà la testa, se il doppiopetto di Abu Mazen dovesse improvvisamente cadere, il primo Sharon tornerebbe alla grande”.