Dal Libano a Gaza

Anche dopo il ritiro dal Libano, Israele si aspettava maggiore comprensione internazionale. Invano.

Da un articolo di Evelyn Gordon

image_856Come diceva giustamente un editoriale del Jerusalem Post, il primo ministro israeliano Ariel Sharon spera che il disimpegno procuri a Israele vantaggi diplomatici. “Ora tocca ai palestinesi l’onere della prova – ha detto Sharon la sera del 15 agosto rivolgendosi alla nazione – Devono combattere le organizzazioni terroristiche, smantellare le strutture del terrorismo e dimostrare sincere intenzioni di pace per poter sedere con noi al tavolo negoziale. Il mondo aspetta la risposta dei palestinesi”.
Ma l’editoriale notava, altrettanto giustamente, che il caso più simile all’attuale ritiro unilaterale da Gaza fu il ritiro unilaterale di Israele dal Libano meridionale nel 2000. E se c’è qualcosa che il ritiro dal Libano ha dimostrato in modo definitivo è proprio che non è in arrivo nessuno dei vantaggi diplomatici sperati.
Quando Israele lasciò il Libano nel maggio 2000, le Nazioni Unite certificarono formalmente che aveva effettivamente sgomberato ogni centimetro di territorio libanese. Di conseguenza Gerusalemme presumeva , proprio come Sharon presume oggi con Gaza, che l’onere ricadesse da quel momento in poi sul Libano: o Hezbollah avrebbe spontaneamente cessato gli attacchi contro Israele, oppure l’esercito libanese avrebbe dovuto schierarsi nel sud per impedire tali attacchi. Se non fosse accaduta né l’una né l’altra cosa, c’era da aspettarsi che il mondo trattasse il Libano e i suoi occupanti siriani come gli aggressori, appoggiando le reazioni militari israeliane.
In realtà, ecco quello che è accaduto. Hezbollah, facendosi beffe della certificazione ufficiale dell’Onu, ha iniziato a reclamare un ulteriore pezzetto di territorio controllato da Israele sostenendo che sarebbe territorio libanese occupato e usandolo come pretesto per continuare ad attaccare Israele. Nei cinque anni successivi, Hezbollah ha assassinato una ventina di israeliani, e ne ha sequestrati e uccisi altri quattro. L’esercito libanese si è semplicemente rifiutato di schierarsi nel sud del paese per impedire questi attacchi. Nonostante i contini attacchi a freddo, l’Unione Europea si rifiuta ancora di riconoscere Hezbollah come un’organizzazione terroristica. Ogni risposta militare israeliana agli attacchi Hezbollah continua a suscitare immediate condanne internazionali e da parte delle Nazioni Unite. La comunità internazionale si è rifiutata di esercitare qualunque pressione diplomatica o economica per spingere il Libano e la Siria (che di fatto controllava il Libano fino alla primavera scorsa) ad adoperarsi per mettere Hezbollah sotto controllo. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha chiesto effettivamente a Hezbollah di disarmarsi, ma né il Consiglio né qualunque stato membro ha minacciato alcuna conseguenza o sanzione in caso di inadempienza. Lo scorso luglio, dopo che la Siria ha ritirato le sue truppe dal Libano, Hezbollah è entrato formalmente nel governo libanese pur annunciando che non aveva alcuna intenzione di disarmarsi né di cessare “la resistenza” (leggi: gli attacchi armati) contro Israele. A quel punto il nuovo primo ministro libanese Fuad Saniora ha affermato che il suo governo sostiene la posizione di Hezbollah. Ma anche questa aperta sfida alla richiesta delle Nazioni Unite che Hezbollah si disarmasse non ha suscitato condanne né dall’Onu o da stati membri, né tanto meno pressioni su Beirut. Persino gli Stati Uniti, che pure considerano ufficialmente Hezbollah un’organizzazione terrorista, hanno reagito senza alcuno sdegno, anzi prodigando elogi al nuovo governo – “Non troverete un partner più favorevole degli Stati Uniti”, ha detto il segretario di stato Condoleezza Rice a Saniora incontrandolo a Beirut – e offrendo aiuti finanziari.
Così il ritiro dal Libano, benché a suo tempo celebrato dal mondo intero, non ha prodotto né pressione internazionale sul Libano perché cessino gli attacchi contro Israele, né una maggior comprensione internazionale per le azioni militari che Israele intraprende in reazione a questi attacchi.
Oggi la comunità internazionale non cerca nemmeno di fingere che la sua reazione al ritiro da Gaza possa essere diversa. Anzi, il mondo ha già messo in chiaro che, lungi dall’aspettare, ora, “la risposta dei palestinesi” al gesto di Israele, ciò che si aspetta subito sono ulteriori concessioni israeliane. L’Onu, Unione Europea e gli Stati Uniti hanno tutti affermato apertamente nelle scorse settimane che, dopo il ritiro, ciò che si attendono è che Israele passi rapidamente a realizzare il piano della Road Map per uno stato palestinese su tutta la Cisgiordania, la striscia di Gaza e Gerusalemme est. Nessuno dei tre ha condizionato questa richiesta al fatto che si registrino sviluppi positivi nella striscia di Gaza dopo il ritiro. Di più. Perseguendo quell’obiettivo, hanno già stilato una lista di concessioni che si aspettano che Israele faccia immediatamente dopo il ritiro, tutte potenzialmente devastanti per la sicurezza d’Israele. Anche gli Stati Uniti, tradizionalmente sensibili alle preoccupazioni israeliane per la sicurezza e più duri col terrorismo palestinese, hanno dichiarato che Israele deve fare queste concessioni anche se l’Autorità Palestinese non ha nemmeno iniziato a fare qualcosa contro i gruppi terroristi.
Così Israele deve cedere all’Autorità Palestinese il pieno controllo del confine fra Egitto e striscia di Gaza, perdendo in questo modo qualunque possibilità di impedire l’afflusso di armi e terroristi verso Gaza dopo il ritiro. Israele deve creare un “passaggio garantito” fra Gaza e Cisgiordania, perdendo in questo modo qualunque possibilità di impedire il flusso di armi e terroristi da Gaza verso Cisgiordania. Israele deve preservare l’unione doganale fra Gaza e Israele che permette alle merci di muoversi fra i due territori senza ispezioni doganali, e porre anche fine alle rigorose ispezioni di sicurezza che ha istituito al posto di quei controlli, perdendo in questo modo qualunque possibilità di impedire che armi ed esplosivi affluiscano da Gaza fin dentro Israele. Israele deve aumentare significativamente il numero di palestinesi di Gaza cui è premesso lavorare all’interno di Israele, aumentando in questo modo la probabilità che i terroristi entrino in Israele spacciandosi per lavoratori pendolari. Israele deve permettere alle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese di acquisire grandi quantità di armi, anche se il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha ripetutamente affermato che tali armi non verranno mai usate contro le organizzazioni terroristiche, e nonostante il fatto che fino ad oggi le armi dell’Autorità Palestinese siano state usate quasi esclusivamente contro Israele.
In breve, lungi dal mostrare maggior comprensione per le esigenze di sicurezza di Israele dopo il disimpegno, la reazione della comunità internazionale è stata quella di pretendere che Israele conceda tutte le principali misure di salvaguardia della sua sicurezza post-ritiro. Ma, dato il precedente libanese, non è questo che sorprende. L’unica cosa che sorprende è che qualcuno possa essersi aspettato qualcosa di diverso.

(Da: Jerusalem Post, 18.08.05)

Nella foto in alto: Addestramento nella striscia di Gaza di terroriste palestinesi dell’ala armata femminile di Hamas, in una foto pubblicata sul sito web del movimento jihadista.