Il caso al-Dura alla Corte Suprema di Francia

È reato cercare la verità e pretenderla dai giornalisti?

Di Elihu Stone

image_3701Questa settimana la Corte Suprema di Francia renderà la sua decisione su un caso che vede contrapposti la tv statale “France 2”, e uno dei suoi maggiori reporter, Charles Enderlin, contro l’analista dei mass-media Philippe Karsenty, accusato dai primi del reato di diffamazione. L’azione legale, che si snoda da otto anni nel sistema giuridico francese, riguarda un evento i cui echi risuonano potentemente ancora oggi.
Il 30 settembre 2000, all’inizio della seconda intifada, France 2 mandò in onda un video di circa un minuto, redazionalmente montato, relativo a un episodio filmato dal suo stringer palestinese, Talal Abu Rahma, all’incrocio di Netzarim, nella striscia di Gaza. Abu Rahma fu l’unico dei tanti cameraman che operarono quel giorno a Netzarim a riprendere l’incidente, che a suo dire si svolse nell’arco di un’ora intera. Charles Enderlin, corrispondente di France 2 da Gerusalemme – che non aveva assistito alla scena – mise in onda il filmato informando i telespettatori che il 12enne palestinese Mohammed al-Dura e suo padre, Jamal, erano stati “bersagliati dal fuoco di una posizione israeliana” mentre cercavano riparo dietro un barile, a ridosso di un muro dello svincolo. In interviste successive Abu Rahma accusò i soldati israeliani di aver assassinato Mohammed “a sangue freddo” sparando “centinaia di proiettili” mentre il ragazzino moriva dissanguato per una ferita all’addome. La micidiale calunnia secondo cui i soldati israeliani avevano allegramente ucciso il piccolo Mohammed si trasformò immediatamente in un focoso appello per tutti i jihadisti e i nemici giurati d’Israele, degli ebrei e delle democrazie occidentali. Bin Laden pubblicò in evidenza l’immagine di al-Dura nei suoi video volti a reclutare adepti; i jihadisti pachistani decapitarono il giornalista ebreo americano Daniel Pearl davanti alla telecamera invocando l’immagine di Mohammed al-Dura.
Sin dal momento in cui è stata trasmessa, la scena ha suscitato tutta una serie di inquietanti interrogativi sul conto di Enderlin, e molti altri ne sono emersi nel corso degli anni seguenti: come mai, benché Abu Rahma e Enderlin sostengano che gli israeliani colpirono Mohammed e suo padre una dozzina di volte con proiettili che trapassarono i loro corpi, non si vede neanche una goccia di sangue sul muro, sul bidone o sul suolo attorno alle due “vittime”? Come mai la gente attorno ad Abu Rahma gridava “il bambino è morto, il bambino è morto!” ancor prima che egli desse segno d’essere stato colpito? Come mai due “stacchi” dopo che Enderlin lo aveva dichiarato morto, il bambino sbirciava da sotto il braccio verso la telecamera non mostrando alcun segno di ferite all’addome? E come mai Enderlin ha tagliato quella scena finale dalla sua trasmissione? Come mai, il giorno dopo l’incidente, alcuni fotoreporter hanno trovato del “sangue” rosso sul terreno vicino al barile dove si trovava il padre, ma non dove il figlio dovrebbe essere morto dissanguato per una ferita all’addome? Come mai 45 minuti di fuoco continuato e mirato hanno lasciato non più di undici fori di proiettile nel muro a ridosso degli al-Dura? Come mai, nonostante Abu Rahma abbia variamente sostenuto d’aver raccolto e/o filmato proiettili sulla scena, e nonostante i chirurghi che avrebbero operato il padre Jamal a Gaza e in Giordania abbiano sostenuto d’aver estratto dei proiettili, non un solo proiettile o frammento di proiettile è mai stato mostrato, in risposta alle ripetute richieste di questa prova da parte di Israele?
L’incidente al-Dura e gli interrogativi che lo circondano sollevano questioni che vanno al di là dei fatti di quel giorno e dei confini geografici del Medio Oriente. Essi chiamano in causa i diritti e le responsabilità basilari dei mass-media nel momento in cui riportano dei fatti, e specialmente nei casi in cui attribuiscono moventi e colpe. Troppo spesso, davanti al tribunale dell’opinione pubblica, la stampa si atteggia contemporaneamente ad avvocato, giudice e giuria. Le regole che governano la produzione di prove davanti al tribunale dell’opinione pubblica sono molto meno precise di quelle delle corti di giustizia. Proprio per questo, la stampa ha responsabilità ancora più grandi di quelle della stessa polizia nel determinare quali immagini e messaggi immettere in quella sfera pubblica che sarebbe suo precipuo compito informare con accuratezza. È stato detto che la verità conta meno di convinzioni e percezioni, nel plasmare i fatti del mondo. Ma ciò non fa che accrescere le responsabilità dei giornalisti: se possono plasmare così potentemente le percezioni, a maggior ragione devono procedere con estremo scrupolo. Le democrazie danno loro la libertà di stampa perché dicano la verità al potere. Abusare di questa libertà per riciclare false accuse mirate ad attizzare la guerra significa tradire la propria stessa professione.
Eppure in più di un’occasione membri dei mass-media hanno difeso le immagini scelte proprio per il loro contenuto emotivo, anziché informativo e probatorio. Il “difensore civico” del Washington Post, Patrick B. Pexton, in un articolo pubblicato lo scorso 23 novembre col titolo “Foto di bambino morto a Gaza mostra solo mezza verità”, ha ricordato quella volta in cui MaryAnne Golon, direttrice della fotografia del Post, gli spiegò che lo scopo di qualsiasi foto in prima pagina, a prescindere del soggetto, è quello di commuovere il lettore, che sia con la bellezza, con il sentimentalismo o con il dramma”. Evidentemente il fatto che il giornalista avesse ingiustamente accusato Israele per la morte del bambino non ha fermato la ricerca dell’impatto emotivo.
Nel caso al-Dura, France 2 non ha voluto indagare interrogativi fondamentali relativi a dati di fatto e a rapporti causali prima, durante e dopo la diffusione di accuse e immagini velenose al pubblico che si fida di France 2. E oggi continua a restare in possesso esclusivo di materiale cruciale per dare appropriata risposta a tali interrogativi. Forse France 2 agì precipitosamente perché non voleva farsi scippare lo scoop da altri che avevano filmato la scena, ma questo non può giustificare la sua successiva scelta di non indagare in modo appropriato. Il rifiuto totale da parte di giornalisti e direttori di France 2 di esaminare prove che contraddicevano le loro ipotesi di base resta profondamente inquietante. Ancora più inquietante il fatto che France 2, messa di fronte ai suoi errori, non ha fatto che rilanciare, cercando di imbavagliare giuridicamente Karsenty per aver avuto il coraggio di definire una bufala il caso al-Dura. Se il tribunale francese, per motivi politici o per motivi tecnici, si schiererà con l’emittente statale France 2 contro un critico coraggioso e onesto, infliggerà un duro colpo non solo alla responsabilità della stampa, ma al tessuto stesso della società civile nella cui difesa dovrebbe svolgere un ruolo fondamentale. Un così misero fallimento da parte sia della stampa che della giustizia nel correggere questa propensione ad accreditare calunnie micidiali farebbe del mondo un luogo molto più pericoloso.

(Da: Times of Israel, 30.3.13)

Nelle immagini in alto: esempi dell’utilizzo propagandistico dell’icona al-Dura