“Intende dire la Palestina del 1948?”

Come un’amichevole chiacchierata con un tassista negli Stati Uniti è diventata un'amara lezione di realismo

Di Sally Abrams

Sally Abrams, autrice di questo articolo

Sally Abrams, autrice di questo articolo

“Da dove viene?”, ho chiesto al tassista dai capelli sale e pepe e dal sorriso cordiale.
“Sono palestinese – ha risposto – Di Ramallah. Ne ha mai sentito parlare?”
“Certo” ho detto, aggiungendo di non essere ancora stata in quella città palestinese, ma che sono stata in Israele molte volte.
I miei figli spesso mi prendono in giro dicendo che, quando scendo da un taxi, conosco tutta la storia della vita del conducente. È un po’ vero. Ho chiacchierato con tassisti provenienti da ogni parte del mondo. Perché tenere gli occhi fissi sul cellulare se l’essere umano che è alla guida viene da un luogo lontano e me ne può parlare?
Questo tassista aveva voglia di parlare. Era negli Stati Uniti da più di vent’anni e parlava un inglese eccellente. Abbiamo parlato del modo migliore di preparare la mejadra (un piatto palestinese a base di riso e lenticchie). Mi ha raccontato della sua famiglia negli Stati Uniti, a Ramallah e in Giordania.
“Ha parenti che vivono in Israele?” ho chiesto.
Silenzio. “Intende dire la Palestina del 1948?”.
Adesso ero io in silenzio.

Per la propaganda anti-israeliana, tutto Israele è da considerare “territorio occupato”, non solo i territori conquistati con la guerra dei sei giorni del 1967.

Israele è uno stato indipendente da quasi settant’anni. Ma il palestinese-americano che sedeva sul sedile anteriore non riusciva a riferirsi a Israele pronunciando il suo nome. Al suo posto, ha usato un termine che mette in chiaro come tutto Israele è da considerare “territorio occupato”, non solo i territori conquistati con la guerra dei sei giorni del 1967.
Ha continuato: “No, nessun familiare lì”.
Pochi istanti dopo arrivavamo alla mia destinazione. Non ero interessata a intavolare con quest’uomo una discussione o una polemica. Volevo solo imparare da lui un po’ di più. Così gli ho fatto gentilmente un’altra domanda. “Come chiamano Israele, i suoi amici e familiari?”
Ha fatto una pausa. “Beh, alcuni lo chiamano la Palestina del 1948, altri dicono Israele. Dipende dalle opinioni politiche che si hanno, credo”.
L’ho ringraziato per la vivace conversazione, gli ho augurato una serata tranquilla e sono scesa dal taxi.
Ho ripercorso la conversazione nella mia mente un paio di volte. Avevo già sentito cose del genere prima di allora. Ma ho anche degli amici palestinesi-americani che la vedono diversamente. Vivendo lontano dalla zona del conflitto, e con la libertà di venire a conoscenza di altre versioni, hanno sviluppato un’interpretazione più articolata. Non è facile per loro, ma ora accettano che Israele è la patria del popolo ebraico e che è destinato a rimanere.
Ho trovato un po’ sorprendente che un uomo che vive negli Stati Uniti da più di due decenni chiami ancora Israele “la Palestina del 1948”. Ma forse non dovrei sorprendermi. Neanche dieci minuti dopo essere uscita da quel taxi mi sono imbattuta nell’articolo “Una guida al lessico palestinese” dello stimato giornalista arabo-israeliano Khaled Abu Toameh.
Era come se fosse stato seduto proprio lì con me, in quel taxi. Abu Toameh riferisce del linguaggio orwelliano che i palestinesi usano per parlare di Israele. Con la firma degli accordi di Oslo del 1993 il termine “entità sionista” decadde dall’uso ufficiale, ma la difficoltà di nominare Israele con il suo vero nome è rimasta. “Più di vent’anni dopo – scrive Abu Toameh – l’Autorità Palestinese e Fatah, la fazione di Abu Mazen, fanno ancora fatica a pronunciare il nome di Israele. Sin dalla sua creazione, nel 1994, la politica ufficiale dell’Autorità Palestinese è stata quella di fare riferimento a Israele (in arabo) come ‘l’altra parte’. Così dicevano le istruzioni diramate dall’Autorità Palestinese a tutti i suoi dipendenti pubblici e al personale di sicurezza, e rimangono in vigore ancora oggi”.

Il cosiddetto "diritto al ritorno" è inteso come la cancellazione di Israele, qui indicato dalla sua data di nascita (15 maggio): dove la prima cifra è trasformata nella mappa delle rivendicazioni territoriali massimaliste

Il cosiddetto “diritto al ritorno” è inteso come la cancellazione di Israele, qui indicato dalla sua data di nascita (15 maggio): dove la prima cifra è trasformata nella mappa delle rivendicazioni territoriali massimaliste

Abu Toameh elenca i termini dispregiativi che i mass-media palestinesi impiegano regolarmente (in arabo) per fare riferimento allo stato d’Israele (“lo stato dell’occupazione”), al governo d’Israele (“il governo dell’occupazione”), persino al primo ministro (“il primo ministro dell’occupazione”) e al ministro della difesa (“il ministro della guerra”). I cittadini arabi israeliani vengono quasi sempre indicati come “gli arabi che vivono all’interno dei territori occupati nel ‘48”. Il nocciolo della questione, secondo Abu Toameh, è proprio qui: “Molti palestinesi rimangono contrari all’uso del nome Israele perché, semplicemente, non riconoscono il suo diritto di esistere”.
Eppure, la prospettiva che i palestinesi dovrebbero avere di un loro stato accanto a Israele – a patto che tale prospettiva  possa essere realizzata nella sicurezza – rimane un articolo di fede assoluto per la maggior parte degli ebrei, sia in Israele che altrove.
Pur con la nostra grande ansia di arrivare alla pace – ed è giusto che vi sia un grande desiderio di pace – non possiamo tuttavia ignorare le dure verità. Secondo un sondaggio condotto nel giugno 2015 dal Palestine Center for Public Opinion in Cisgiordania e Gaza, “l’atteggiamento dei palestinesi è chiaramente massimalista: in Cisgiordania, l’81% afferma che tutta la Palestina storica è terra palestinese e che gli ebrei non hanno alcun diritto su questa terra. A Gaza, la cifra è ancora più elevata: 88%”.
Se i palestinesi cominciassero domani stesso, ci vorrebbe almeno un’intera generazione per cambiare questa mentalità. Fino a quando gli amichevoli tassisti palestinesi distanti 25 anni e 10mila chilometri dal Medio Oriente faranno ancora riferimento a Israele come “la Palestina del 1948”, io continuerò a temperare il mio grande desiderio di pace con una forte dose di realtà.

(Da: Times of Israel, 4.8.2016)