La rischiosa scommessa di Abu Mazen

Gioca col fuoco, ma potrebbe perdere il controllo, la presidenza e pregiudicare ogni chance di pace.

Editoriale del Jerusalem Post

image_3671La sventurata morte di Arafat Jaradat, un palestinese arrestato la scorsa settimana mentre lanciava pietre contro le auto israeliane, ha innescato una serie di violenze in vari focolai in Cisgiordania. Un’autopsia condotta dal Ministero della Sanità, alla presenza di un coroner palestinese, ha rilevato che Jaradat è deceduto sabato scorso nel carcere di Megiddo per arresto cardiaco e che alcuni segni sul suo corpo, come le costole rotte, sono dovuti alle manovre di rianimazione. Ma l’Autorità Palestinese, nell’evidente tentativo di imprimere un’escalation alle tensioni, ha proclamato che Jaradat è stato torturato a morte. Le Brigate Martiri di al-Aqsa, un gruppo terrorista legato a Fatah, hanno giurato di vendicare la morte di Jaradat, subito diventata un’altra sorgente di rabbia per i palestinesi che già manifestavano con molotov e sassaiole in solidarietà con lo sciopero della fame di quattro detenuti per reati contro la sicurezza, e in particolare contro la decisione di Israele di procedere nuovamente all’arresto di due terroristi che, dopo essere stati scarcerati nell’ottobre 2011 nel quadro dell’accordo-ricatto per la liberazione dell’ostaggio Gilad Shalit, avevano violato le condizioni dell’accordo. Kadoura Fares, ex ministro dell’Autorità Palestinese, oggi a capo dell’Associazione Detenuti Palestinesi, ha minacciato una “terza intifada”. E così lo scenario è pronto per una nuova esplosione.
Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) può essere interessato a un’escalation di violenza in vista della visita nella regione del presidente Usa Barack Obama. Scene di sommossa nelle città palestinesi di Cisgiordania alla vigilia dell’arrivo del presidente americano potrebbero riportare la questione palestinese in cima alle priorità della Casa Bianca in Medio Oriente. Da qualche tempo, in effetti, la sanguinosissima guerra civile siriana, l’ascesa dei Fratelli Musulmani in Egitto e la corsa dell’Iran verso armi nucleari hanno messo in ombra la causa palestinese. Abu Mazen ha correttamente percepito che la relativa calma in Cisgiordania – dovuta in buona parte a una forte cooperazione sulla sicurezza fra Israele e Autorità Palestinese – ha reso americani, europei e molti israeliani piuttosto tranquilli rispetto alla necessità di colloqui di pace. Ma Abu Mazen deve rendersi conto del pericolo che comporta soffiare sul fuoco della violenza. Se i tumulti, che finora sono rimasti per lo più circoscritti ad alcuni piccoli villaggi attorno a Hebron, dovessero effettivamente propagarsi a città come Ramallah e Nablus spingendo nelle strade un numero ben più grande di palestinesi, la situazione potrebbe degenerare in una “terza intifada”. Vi sono elementi molto estremisti dentro Fatah che vedrebbero volentieri tale sviluppo come uno strumento per scalzare Abu Mazen dal potere. Benché vi sia poco che Abu Mazen possa fare per fermare i disordini, potrebbe perlomeno tenere a freno i capi di Fatah che alimentano l’escalation. Allo stesso tempo anche le forze di sicurezza israeliane, che hanno il compito di contenere le violenze e impedire manifestazioni che bloccano le strade principali, devono cercare di fare l’uso più contenuto possibile della forza ed evitare scontri che non siano assolutamente necessari.
Può darsi che i disordini in Cisgiordania portino temporaneamente in primo piano la questione palestinese, nelle agende politiche degli affari esteri di americani ed europei. Ma i veri ostacoli alla pace rimangono gli stessi. La dirigenza palestinese rimane spaccata fra Hamas, nella striscia di Gaza, e Fatah in Cisgiordania. Nessuna delle due può sostenere di rappresentare l’intero popolo palestinese. E la legittimità della dirigenza politica palestinese è ulteriormente sminuita dal fatto che non si sono più tenute elezioni democratiche dopo il 2006. Le elezioni che si sarebbero dovute tenere nel 2009 sono state ripetutamente rinviate. Abu Mazen, il cui incarico è già scaduto da tempo, non ha alcun mandato da parte del suo popolo per fare concessioni a Israele. E Hamas, dal canto suo, di fare concessioni non si sogna nemmeno.
Riportare la questione palestinese nell’agenda del mondo occidentale alimentando le violenze in Cisgiordania può servire a cambiare temporaneamente la percezione dei problemi, ma non cambierà le cause alla base dello stallo del processo di pace. Nella migliore delle ipotesi, dal punto di vista di Abu Mazen, un po’ di disordini circoscritti potrebbero spingere Europa e Stati Uniti a rinnovare le pressioni su Israele. Ma se sbaglia la scommessa e i disordini degenerano in una “terza intifada”, Abu Mazen potrebbe perdere completamente il controllo della situazione, giocarsi la presidenza e pregiudicare per anni ogni possibile chance di pace.

(Da: Jerusalem Post, 25.2.13)